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Quasi tutti conosciamo l’espressione “andare in brodo di giuggiole”.
E’ un’esclamazione che talvolta sentiamo pronunciare e pronunciamo per sottolineare un momento vissuto con grande soddisfazione.
Il “brodo di giuggiole” non è però uno strano modo di dire bensì un antico e prelibato distillato oggi però difficilmente reperibile nei grandi mercati.

Il fiore
IL GIUGGIOLO… QUESTO SCONOSCIUTO
DESCRIZIONE – STORIA – RICETTA – MODI DI DIRE E…
a cura di Tony Kospan
LA PIANTA

Il giuggiolo (Zizyphus vulgaris) è una pianta alta dai 5 a i 12 metri originaria dell’Africa settentrionale e della Siria che in tempi antichissimi si diffuse in Cina e in India, dove viene coltivato da oltre 4000 anni.
E’ per questo che viene anche chiamato “dattero cinese”.
Presenta un aspetto piuttosto contorto, con rami irregolari e spinosi.
Le foglie di piccole dimensioni, sono d’un verde brillante con margini seghettati mentre i piccoli fiori sono gialli.
LA GIUGGIOLA (IL FRUTTO)

La giuggiola… il frutto… assomiglia ad una grossa oliva dal colore prima verdastro e poi rosso marrone scuro quand’è matura.
La polpa di colore verde è soda e compatta ma farinosa ed ha un leggero sapore dolce.
Spesso il giuggiolo viene innestato nel melo per cui si ha un frutto… la giuggiola-mela… di dimensioni cospicue e dalla polpa zuccherina e soda.
LA STORIA DEL GIUGGIOLO

Già per Erodoto, che definì le giuggiole simili ai datteri, esse potevano essere usate per produrre un vino liquoroso ed inebriante.
Però i Greci le mangiavano anche come frutta.
Narra Omero nell’Odissea che Ulisse e i suoi uomini a causa di una tempesta, si ritrovarono sull’isola dei Lotofagi e che i suoi uomini, si lasciarono tentare dal frutto del loto un frutto che magicamente fece loro dimenticare mogli, famiglie e la nostalgia di casa.
Si ritiene che il loto di cui parla sia lo “Zizyphus lotus”, un giuggiolo selvatico.
Una specie affine, lo “Zizypus spinachristi”, è ritenuto dalla leggenda una delle due piante che servirono a preparare la corona di spine di Gesù.
Dopo un periodo in cui era diventato solo una pianta di nicchia sembra che ora stia tornando di moda.
IL GIUGGIOLO IN ITALIA

I romani per primi lo importarono in Italia chiamandolo”Zyzyphum” e per essi era simbolo del silenzio ed adornava i Templi della Prudenza.
Il termine latino è rimasto nel dialetto veneto “zizoea“.
In Romagna in molte case coloniche era coltivato adiacente alla casa nella zona più riparata ed esposta al sole.
Si riteneva che fosse una pianta portafortuna.
In Veneto ed in particolare a d Arquà Petrarca i giuggioli sono ancora piantati nei giardini di molte abitazioni e le giuggiole sono variamente utilizzate in cucina ed in… cantina.
Oltre all’espressione di cui parlavo all’inizio una volta era diffuso anche chiamare affettuosamente “giuggiolino” i bambini simpatici e grassottelli.
Nella medicina popolare è considerata uno dei quattro frutti “pettorali” con fichi, datteri e uvetta.
Viene usata in infuso o in decotto per prevenire e curare i sintomi da raffreddamento e le infiammazioni alle vie respiratorie.
L’USO ODIERNO

Le giuggiole si consumano sia fresche, appena colte dall’albero, sia quando sono un po’ secche.
C’è un solo nocciolo all’interno simile a quello delle olive.
Si possono trasformare anche in marmellate oppure conservate sotto grappe.
Si fanno anche tisane e sciroppi dolcissimi utilizzati contro la tosse ed anche il famoso… brodo liquoroso.
I frutti sono diuretici, emollienti e lassativi.

IL BRODO DI GIUGGIOLE
LA RICETTA
INGREDIENTI:
– 1 kg di giuggiole
– 1 kg di zucchero
– 2 mele cotogne
– 1 limone non trattato
– 1 litro di vino bianco
– 200 gr di uva isabella o vespolina sgranata
ESECUZIONE:
Prediligete delle giuggiole mature e raggrinzite, che sono poi quelle più dolci, eliminatene il nocciolo.
Mettetele in acqua unitamente alle mele cotogne tagliate a fettine, la scorza di limone, l’uva e lo zucchero, cuocete e dopo un’oretta di cottura a temperatura dolce aggiungete un po’ alla volta il vino di modo che questo possa sostituire l’acqua.
Passate tutto al setaccio.
Il risultato finale deve essere quello di una “marmellatina” tenera e saporita.

IL DETTO:
ANDARE IN BRODO DI GIUGGIOLE
L’espressione nasce a seguito della ricetta con questo nome usata nei paesi intorno al Lago di Garda e considerata una vera e propria prelibatezza.
Viene riportata già nel 1612 nel Vocabolario degli accademici della Crusca e le viene dato il significato di “godere di molto di chicchessia”.
Poi essa si diffuse in tutta Italia e resiste bene ancor oggi… nel senso di “gran godimento“.

CIAO DA TONY KOSPAN
LA PAGINA FB PER COLORARE LE TUE ORE

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L’uovo è sicuramente il simbolo più rappresentativo della Pasqua,
che è, per eccellenza, anche la grande festa della primavera.
La tradizione di scambiarsi le uova come segno benaugurale è antichissima,
e precede addirittura il Cristianesimo.

LA STORIA DELL’UOVO DI PASQUA

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LA STORIA ANTICA
Simbolo della vita che si rinnova, l’uovo veniva donato un tempo quando la Pasqua coincideva con i riti primaverili per la fecondità della natura e delle colture.
I Persiani, per esempio, già 3000 anni fa consideravano l’uovo di gallina un segno augurale e simbolo della natura che si rinnova ed analogamente gli Egizi erano soliti donare all’inizio della primavera uova dipinte ad amici e parenti come augurio di rinascita.

I Romani erano soliti dire Omne vivum ex ovo (tutti i viventi nascono da un uovo), mentre risale alla tradizione orientale (Cina) l’idea che le origini della Terra vadano fatte risalire a un uovo primordiale gigante.
Secondo la tradizione cristiana, invece, le uova sono il simbolo della Resurrezione di Cristo.

L’UOVO NELLA LEGGENDA CRISTIANA
La leggenda narra che Maria Maddalena, di ritorno dal Santo Sepolcro rimasto vuoto, tornando a casa per raccontare il miracolo ai discepoli, si imbatté in Pietro che non le credette.
Anzi, schernendola Le disse: “Ti crederò solo se le uova che porti nel cestello si coloreranno di rosso”.
Immediatamente le uova assunsero un colore purpureo e lo scettico Pietro fu costretto a piegarsi davanti a cotanto miracolo.
Da allora, alla fine di ogni Messa pasquale, venivano donate ai fedeli uova benedette dipinte di rosso a testimonianza del sangue versato da Gesù.

L’UOVO NEL MEDIOEVO
Nel corso del Medioevo la tradizione voleva che uova sode dipinte a mano fossero servite a pranzo e donate ai servitori, mentre nel XV secolo si diffuse l’usanza di servire per colazione un’omlette preparata con le uova deposte dalla gallina il giorno del Venerdì Santo.
Contrastanti, invece, le leggende che riguardano la nascita dell’uovo fatto interamente di cioccolato: c’è chi dice che fu Luigi XIV il primo a farle realizzare mentre altri, invece, sostengono che l’usanza provenga dalle Americhe poiché il cacao è una pianta originaria del Messico.

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L’UOVO DI PASQUA NELLA STORIA RECENTE
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La tradizione dell’uovo di Pasqua non è mai terminata
ed oggi è più viva che mai..
Ormai però le uova hanno quasi dappertutto la caratteristica
d’esser di cioccolata e con la sorpresa incorporata.

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Dopo un lungo periodo in cui le uova erano artigianali
ora sono diventati un prodotto di larghissimo consumo
e dunque industriali.
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LE MITICHE UOVA D’ORO FABERGE’
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Prima di concludere questo post non posso non ricordare
le fantastiche uova d’oro di Fabergé…
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Erano prodotte per lo Zar di Russia in occasione della Pasqua

Erano vere e proprie uova matrioska
ed un vero e proprio mix d’arte e gioielleria davvero favoloso.
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Ancor oggi stupiscono per la loro sognante bellezza.

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Chi desidera approfondire la conoscenza
delle mitiche uova Fabergé
può cliccare qui giù.


INFINE DA ORSO TONY
A VOI TUTTI UN UOVO PASQUALE
BENCHE’ VIRTUALE







AMI LA STORIA ED I RICORDI DEL PASSATO?


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Sono accanto a noi tutta la vita come amici (o nemici)
ed in ogni caso non possiamo farne a meno
ma… ne conosciamo la storia?
Sì, anche loro hanno una lunga storia
e forse, leggendola, avremo qualche sorpresa.
LA FANTASTICA STORIA DEI NUMERI
1. NOI ED… I NUMERI
“Dio creò gli INTERI, tutto il resto (cioè i numeri fratti, irrazionali, trascendenti, immaginari etc.) sono opera dell’uomo” questa è l’opinione di Leopold Kronecker, un matematico tedesco vissuto nell’Ottocento.
L’affermazione è perentoria e sembra quasi invitarci a non indagare troppo sulla natura dei numeri.
Noi invece vogliamo confutare il pensiero di Kronecker perché siamo convinti che il Padreterno può aver creato tutt’al più le pecore e tutte le altre cose del mondo ma non i numeri, i quali invece sono stati inventati dall’uomo proprio perché si possano contare le pecore e tutte le altre cose create da Dio.
Cominciamo allora con l’osservare che il sistema di numerazione che usiamo abitualmente è quello decimale, cioè contiamo e scriviamo i numeri per decine; ciò potrebbe non essere casuale.
L’uomo primitivo, per contare, potrebbe essersi servito di parti del proprio corpo, per esempio delle mani e delle relative dita.
Tutti abbiamo sperimentato che il modo più naturale di contare è quello di chiudere le mani (o anche una sola mano) a pugno e quindi sollevare un dito per volta in corrispondenza di ogni oggetto dell’insieme che si vuol contare.
Se l’evoluzione avesse sviluppato solo quattro dita per mano, l’uomo avrebbe probabilmente elaborato un sistema di numerazione «quaternario» o «ottale», cioè a base quattro o a base otto.
Questo convincimento poggia anche sul fatto che sono esistiti in passato ed esistono anche attualmente, presso alcune popolazioni, conteggi e registrazioni dei numeri basati sulle dita di una sola mano (sistema di numerazione «quinario»), o sulle venti dita complessive delle mani e dei piedi (sistema di numerazione «vigesimale»).
La numerazione celtica, ad esempio, era una numerazione a base venti e i francesi, nella loro lingua, conservano il ricordo del modo di indicare i numeri di quell’antica popolazione: per dire ad esempio ottanta, i francesi dicono quatre-vings, cioè quattro volte venti.
Esistono anche delle basi di numerazione che non derivano dall’anatomia del nostro corpo, ma dall’astronomia, come le numerazioni per dozzine o per sessantine, che si usano ad esempio quando si conteggia il tempo, dove, come tutti sanno, sessanta secondi sono un minuto e sessanta minuti sono un’ora e dove un giorno consta di ventiquattro ore ed un anno di dodici mesi.

2. GLI ANTICHI ED I NUMERI
I Caldei, gli antichi abitanti della Mesopotamia, avevano osservato che il Sole sorgeva nei vari periodi dell’anno in punti del cielo via via diversi e che dopo un anno, cioè dopo circa 360 giorni, il ciclo ricominciava.
Essi notarono anche che la Luna riduceva le sue dimensioni giorno dopo giorno per poi ritornare a crescere ed assumere nuovamente l’aspetto di “Luna piena” dopo 30 giorni circa.
Ora, 360 diviso 30 fa 12 e 12 erano appunto le costellazioni dello zodiaco, ossia i settori del cielo occupati da stelle che la fantasia degli antichi assimilava prevalentemente ad animali, entro i quali trovava sistemazione il Sole nei dodici periodi nei quali era stato diviso l’anno.
L’anno in realtà non dura 360 giorni, ma 365 e 6 ore circa, né vi sono 12 “lune”, cioè 12 mesi di trenta giorni in un anno, e quindi la divisione dell’anno suggerita dai Caldei dovette essere successivamente corretta, ma rimase inalterata la suddivisione della circonferenza in 360 parti, chiamate «gradi».
La ripartizione della circonferenza in gradi è legata quindi alla divisione della linea dell’orizzonte in 360 parti, e pertanto ha origine astronomica.
Trecentosessanta però è un numero troppo grande perché esso serva come unità di misura e i Caldei preferirono, come base per una numerazione, la sua sesta parte, cioè il numero sessanta.
Una volta risolto il problema di come contare rimaneva quello di registrare i numeri, cioè di scrivere ciò che si era contato.

Numeri cuneiformi
I primi simboli utilizzati per scrivere i numeri erano delle raffigurazioni schematiche dette cuneiformi, perché venivano ottenute affondando, su tavolette d’argilla, la punta di uno stilo metallico.
Essi furono introdotti dai Babilonesi circa tremila anni prima di Cristo.
Successivamente vennero utilizzati anche dagli Egizi, che per scrivere i numeri adottarono un sistema a base decimale.
Vi era un simbolo speciale per ogni potenza del dieci e per scrivere gli altri numeri si ricorreva ad una legge additiva che consisteva nel ripetere più volte lo stesso simbolo (al massimo però fino a nove volte, perché poi c’era un apposito simbolo per scrivere il numero superiore).
Numeri egizi
I Greci furono pessimi matematici, pur essendo stati ottimi geometri, tanto che la geometria che si studia oggi nelle scuole è la cosiddetta geometria euclidea, formulata dal greco Euclide circa 300 anni prima di Cristo.
I greci per scrivere i numeri si avvalsero di diversi sistemi, tutti molto approssimativi e di difficile impiego.
Il più diffuso utilizzava le lettere dell’alfabeto che, a quel tempo, era costituito di ventisette simboli.
Il motivo per il quale i greci erano piuttosto arretrati nella scrittura dei numeri e conseguentemente nella pratica del conteggio risiede nel fatto che nella loro cultura le arti pratiche, cioè le attività di cui si occupavano i commercianti e gli artigiani, erano considerate attività di minor valore rispetto a quelle prive di fini utilitaristici come la filosofia e la poesia alle quali si dedicava la classe dirigente.
Questa specie di indifferenza o addirittura di disprezzo verso il “far di conto” si protrarrà nei Paesi d’Europa per tutto il Medioevo e, secondo alcuni, dura tutt’oggi.

Numeri antica Grecia
I Romani adottarono un sistema di numerazione a base decimale i cui simboli, i cosiddetti «numeri romani», erano una modificazione dei simboli adoperati dagli Etruschi, gli antichi abitanti dell’Italia centrale, i quali si ispirarono, per la loro rappresentazione, alla forma delle mani e delle dita.
I primi tre simboli della numerazione romana rappresentano una (I), due (II) o tre (III) dita distese della mano, il cinque (V) ravvisa il disegno schematico della mano aperta e il dieci (X) potrebbe essere la rappresentazione approssimativa di due mani aperte e congiunte, attraverso i polsi, in senso opposto.
I Romani per scrivere i numeri riuscirono ad utilizzare meno simboli dei loro predecessori in quanto si avvalsero sia dell’addizione che della sottrazione. Quando i simboli si susseguivano da sinistra a destra in ordine di valore crescente si sommavano, se invece una cifra di minor valore precedeva una di maggior valore veniva sottratta. Così, ad esempio, “XVI” significava dieci più cinque più uno, cioè sedici, mentre “IV” significava cinque meno uno, cioè quattro.

3. COME FU RISOLTO IL PROBLEMA
DEL”FAR DI CONTO”
Le numerazioni dell’antichità non erano molto adatte per fare calcoli, e specialmente non lo era quella romana.
Immaginiamo di dover sommare il numero XVI al numero IV o peggio ancora di dover moltiplicare il primo per il secondo senza trasformarli prima nel sistema decimale.
L’operazione, come è facile comprendere, risulta tecnicamente pressoché impossibile.
Gli antichi, in verità, per fare i calcoli usavano i cosiddetti «abachi», cioè tavolette divise in scomparti nei quali venivano sistemati dei sassolini che corrispondevano alle cifre di cui erano composti i numeri; essi funzionavano un poco come funzionano i pallottolieri.
In ciascuno scomparto veniva sistemata una serie di sassolini a seconda delle unità, delle decine, delle centinaia e così via, di cui era composto il numero.
Negli stessi scomparti, in modo coerente, venivano aggiunti i sassolini corrispondenti al numero che doveva essere sommato.
Si contavano quindi tutti i sassolini presenti nel comparto delle unità e, se superavano il dieci, si lasciavano solo quelli eccedenti tale numero, mentre, nel secondo scomparto, quello delle decine, si aggiungeva un sassolino che valeva pertanto quanto dieci del primo scomparto.
Si raggruppavano quindi i sassolini dello scomparto delle decine e, come nel caso precedente, se superavano il dieci, se ne toglieva appunto tale numero lasciandone il resto e si aggiungeva quindi un sassolino nello scomparto delle centinaia e così di seguito.
Successivamente, vennero introdotti dei simboli speciali per ciascun numero da 1 a 9.
Con l’introduzione dei nuovi simboli che probabilmente arrivarono dall’India, e furono chiamati «numeri d’abaco», invece che sistemare negli scomparti i sassolini corrispondenti al numero che si voleva rappresentare, si piazzava direttamente il simbolo equivalente a quella cifra.

Numeri d’abaco
In questo modo si arrivò praticamente all’introduzione del sistema moderno di numerazione.
Questo è detto posizionale perché ogni cifra di un numero ha un certo significato a seconda della posizione che occupa all’interno del numero stesso. L’adozione del sistema posizionale riduce la quantità dei simboli necessari per rappresentare i numeri.
Senza questo artifizio la registrazione di un numero non sarebbe niente di più di una specie di stenografia, cioè una sequenza di simboli senza senso logico che certamente non avrebbe consentito alla matematica alcun progresso.

4. LA NASCITA DELLO… ZERO
Lo guardi e non lo vedi
lo ascolti e non lo senti
ma se lo adoperi è inesauribile
Mancava, tuttavia, per arrivare alla scrittura moderna dei numeri, un perfezionamento di non secondaria importanza: l’introduzione dello zero, una cifra alla quale nessuno, fino a quel tempo, aveva ancora pensato.
Lo zero venne introdotto, come simbolo della numerazione, dai mercanti indiani del IX secolo dopo Cristo, poiché essi si erano accorti che lasciando degli spazi vuoti, nella scrittura dei numeri, c’era il rischio di incorrere in equivoci molto seri. Due cifre, per esempio l’uno e il due, potrebbero indicare nella numerazione decimale numeri diversi, a seconda della posizione assunta dai simboli stessi.
Essi potrebbero indicare, ad esempio, il numero 12, ma anche il numero 102 se rimanesse vuoto uno spazio fra le due cifre. Il pericolo maggiore di errore si sarebbe verificato tuttavia se gli spazi vuoti fossero stati quelli finali, quindi ad esempio per i numeri 120 o 1200.
I mercanti indiani, che erano gente pratica che non andava troppo per il sottile, al contrario di quanto avveniva per i filosofi greci per i quali la scienza era un raffinato gioco intellettuale, introdussero, senza farsi troppi scrupoli, un simbolo specifico per indicare il vuoto.
Del nuovo modo di scrivere i numeri vennero a conoscenza gli Arabi, i quali, essendo anch’essi dei mercanti, assimilarono immediatamente l’innovazione indiana, e successivamente la diffusero anche in Europa.
Come mai ci volle tanto tempo per capire che lo zero rappresentava una cifra fondamentale per la scrittura dei numeri?
Il fatto è che i numeri vennero introdotti per contare gli elementi di una collezione e lo zero, all’interno di questa operazione, rappresenta il nulla, il vuoto.
Era quindi difficile pensare allo zero come a qualche cosa di concreto.
Prima dell’invenzione dello zero fu introdotto, in verità, il punto per indicare lo spazio vuoto.
Il punto è il simbolo visibile di più piccole dimensioni che si possa utilizzare per mostrare qualche cosa di immateriale e quindi era ciò che più si avvicinava al concetto di niente.
Il punto però non rappresentava un numero, e quindi non poteva dare una risposta concreta ad un’operazione matematica del tipo, ad esempio, di due meno due.

Numeri Maya
Per la verità quasi certamente i primi ad adottare lo zero come numero, da un punto di vista storico-cronologico, furono invece i Maya, con il loro sistema vigesimale, cioè in base venti ma la loro storia rimase nel chiuso delle Americhe – N.T.K.
F I N E
TESTO SENZA AUTORE PRESENTE IN VARI SITI WEB – IMPAGINAZIONE T.K.
CIAO DA TONY KOSPAN
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Una trasmissione ormai sempre più lontana nel tempo
ma sempre molto vicina ai cuori di coloro che la conobbero.
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STORIA.. IMMAGINI.. PERSONAGGI E VIDEO
DI UNA TRASMISSIONE MITICA
a cura di Tony Kospan
Il 3 febbraio 1957 nasceva il mitico CAROSELLO
e con esso la prima forma di pubblicità televisiva in Italia.
Dura minga
Andava in onda sull’unico Canale Rai dell’epoca.
Iniziava alle ore 20,50 e durava 10 minuti
e dunque finiva immancabilmente alle 21.
Carmencita
Ogni spot, vero mini film, durava circa 155 secondi
ma il messaggio pubblicitario era inserito solo negli ultimi 35.
I filmati avevano contenuti di diversissimo genere
(sketch spesso comici, cartoni animati, mini storie, pupazzi animati etc.).
Qui giù possiamo vedere la mitica sigla
e la relativa musichetta.
L’indimenticabile sigla
Spesso erano veri e propri piccoli capolavori,
delle vere gemme artistiche create da grandi registi
o da bravissimi disegnatori… etc.
Molti personaggi di Carosello erano amatissimi…
come ad es. L’ispettore Rock, Calimero,
Caballero e Carmencita, Papalla, l’Omino coi baffi”,
Linea, “Vigile e il foresto”, “Ulisse e l’ombra” etc.
La Linea di Cavandoli
Indimenticabile e classica era la frase che i genitori
dicevano ai loro bambini…
“E dopo Carosello tutti a nanna”.
Ora non ci resta che un bel ricordo ed un po’ di nostalgia
che, in parte, possiamo ravvivare con questi altri video.
Calimero
e con quest’altro con l’Ispettore Rock e i suoi mini gialli.
CIAO DA TONY KOSPAN
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LA STORIA IN BREVE DEL REGGISENO
Le antiche romane, forse anche perché ai loro uomini non piacevano i seni troppo abbondanti, usavano dei sistemi per ridurre o non mostrare troppo il seno.
Usavano quindi il “mammillare”, fascia di cuoio che serviva per appiattire e contenere il volume, o per seni ancor più grandi il “cestus”, un corpetto o corsetto di cuoio morbido, che dall’inguine arrivava alla base del petto.
Nella mitologia fu Venere a inventarlo consigliandolo a Giunone, moglie di Giove, notoriamente dalle forme molto abbondanti (da lei infatti nacque l’aggettivo “giunonico”).
Tuttavia, normalmente, le donne greche e romane usavano una “fascia da seno”, una fascia di lana o lino avvolta tra le mammelle e annodata o trattenuta da una spilla sulla schiena.
Ma il primo reggiseno, nel senso che oggi gli diamo, fu trovato nel 2008 nel castello di Lengberg, in Tirolo, e risale alla metà del XV secolo.
Tuttavia come abbigliamento intimo femminile di massa la sua nascita è avvenuta invece il 3 novembre 1914 quando fu brevettato da Caresse Crosby.
Col tempo poi c’è stata una notevole evoluzione aggiungendo alla sua utilità… la bellezza, l’eleganza ed il fascino dell’indumento (ma anche altre funzioni).
IL GRUPPO DI CHI AMA LA STORIA E LE ATMOSFERE DI UN TEMPO
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Moda maschile – La lunga storia della cravatta dall’antichità ai giorni nostri
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Non solo le Nazioni, i popoli, le persone etc.
hanno una loro storia
bensì anche le cose e gli oggetti (pure i più umili)
che vivono o hanno vissuto nel tempo con noi.
Ed anch’essi subiscono diverse vicissitudini
potendosi evolversi col tempo
o… anche scomparire.
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Ed allora stavolta parliamo di una cosa da… uomini
la cravatta.
Essa è stata mia… compagna fedele per oltre 40 anni.
Devo però dire che era ed è ancora
per me naturalissimo indossarla.
Non mi ha mai dato alcun fastidio
però oggi, che sono in “ferie permanenti” (ah ah),
cerco di vestire molto più casual.
Dunque ecco una breve storia dell’amica cravatta.
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LA STORIA DELLA CRAVATTA
Così come la camicia, che da semplice indumento ” intimo”, come veniva considerato nei tempi antichi, ha assunto con il passare dei secoli, sempre maggiore importanza fino a diventare vero e proprio segno distintivo di eleganza e raffinatezza, anche la cravatta, nata inizialmente come semplice fazzoletto, ha conquistato ben presto un posto di rilievo nella vita dell’uomo. Ornamento indispensabile all’eleganza maschile, spesso portata anche dalle donne, esprime la personalità di chi l’indossa e diviene strumento di grande importanza nelle relazioni sociali.
Ricostruzione del vestiario di un soldato romano
La cravatta nasce inizialmente come pezzo di stoffa che i legionari romani portavano, per motivi igienici o climatici, legato intorno al collo, con il nome di “focale”.
Secoli dopo i francesi adottarono questo ” fazzoletto”, mutuando a loro volta l’idea, da quello indossato dai mercenari croati durante la guerra dei Trent’anni.
Nel 1661 Luigi XIV istituisce la carica di “cravattaio” del re, gentiluomo cui era assegnato il compito i aiutare il sovrano ad abbellire ed annodare la cravatta.

La cravatta di Luigi XIV
Nove anni dopo nel ’61 la duchessa di Lavallière, favorita del re, è la prima donna ad indossare una cravatta.
Nel XIX secolo sarà dato il suo nome alla più aggraziata delle cravatte maschili.
Nel1925, il cravattaio americano Jesse Langdorsf brevettò una cravatta lunga, meno sgualcita e più stabile:
era nata la cravatta attuale, confezionata con tre segmenti di tessuto e tagliata di sbieco.
Oscar Wilde
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Parlando di cravatte non si può non menzionare il nodo.
Oscar Wilde nel suo “L’Importanza di Chiamarsi Ernesto” diceva: “Una cravatta bene annodata è il primo passo serio nella vita”.
Il gesto quotidiano dell’annodarsi la cravatta assume un significato simbolico e quasi magico che si perde nella notte dei tempi.
Nell’iconografia simbolica maschile il nodo rappresenta l’unione, il matrimonio, la fertilità e quindi la vita.
Come Léonor dice ad Ariste ne “La scuola delle mogli ” di Molière, “Un sacro nodo da domani ci unirà”.
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Cravatta ai tempi della Belle Epoque
Ma come si annoda una cravatta?
Un Semplice gesto che con poche regole base, diventa facile come allacciarsi le scarpe.
Non sempre si sa che per fare il “nodo semplice”, il più diffuso, occorre posizionare l’estremità più larga, 30 cm. più in basso, e se si è destri posizionarla sulla destr o sulla sinistra per i mancini.
Concludendo possiamo riassumere l’essenza della cravatta con questo aforisma di un anonimo francese del 1820. “Della cravatta ho una cura perfetta: è il vero canone dell’eleganza. Mi adopero per ore con costanza perché appaia annodata in tutta fretta“

Come fare il nodo Windsor
Testo dal web… impaginazione t.k.
Oggi tra le cravatte più ricercate e famose, per la loro raffinata eleganza, sono certamente quelle di Marinella.
Esse sono tutte fatte a mano e sono richieste ed utilizzate da VIP, Capi di Stato di tutto il mondo e da chi vuole indossare una cravatta davvero unica.
La storia delle cravatte Marinella inizia nel 1914 a Piazza Vittoria sull’elegante Riviera di Chiaia di Napoli dove ancor oggi si trova il negozio.
Ciao da Orso Tony
STORIA RICORDI ED ATMOSFERE DI UN TEMPO
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L’ideatore (e realizzatore) del mitico “Cubo” che porta il suo nome
è stato lo scultore, architetto e designer ungherese
Ernő Rubik, padre anche di altri giochi analoghi.
(Ernő Rubik – Budapest 13 luglio 1944)
Leggeremo ora la storia del mitico… cubo
sia per chi lo conosce,
ma l’ha confinato in un angolo della memoria,
che per le nuove generazioni.
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IL MITICO ROMPICAPO DEGLI ANNI 80
IL GIOCO – LA STORIA – UN RECORD
COS’E’…?

Il cubo di Rubik, detto anche “Cubo Magico”, è composto da 26 cubetti esterni ed un “cubetto invisibile” interno in cui risiede il meccanismo che permette la rotazione dei piani in tutte le direzioni.
Lo scopo del gioco è di risalire alla posizione originale dei cubetti portando il cubo ad avere per ogni faccia un colore uguale.
Sei lati, ogni lato 9 quadratini colorati, e tutti i lati che si possono muovere sia in orizzontale che in verticale..vi sembra di ricordare, vero? 43.252.003.274.489.856.000 (si, proprio 43 miliardi di miliardi..) di possibili combinazioni, e una sola che portava al risultato agognato, tutte e 6 le facce del colore giusto, nello stesso momento!
Uscito dalla mente malefica di un matematico ungherese, il cubo di Rubik è stato per noi ragazzi degli anni ’80 quello che i Pokemon sono per i ragazzini di oggi, una mania, una febbre da cui non si poteva guarire. In tutti i formati e le dimensioni, ci giocavamo a tutte le ore, a scuola e fuori scuola, anche e soprattutto durante le lezioni..e mentre per molti l’unica soluzione possibile era quella di staccare i quadratini colorati e attaccarli dove serviva, ai campionati mondiali c’era chi lo completava in meno di 30 secondi!
Ma ecco ora in breve la storia completa di questo mitico rompicapo…
LA STORIA
Il cubo di Rubik (o cubo magico) è un celebre rompicapo inventato dal professore di architettura e scultore ungherese Ernő Rubik il 19 MAGGIO 1974.
Originariamente chiamato dallo stesso inventore (Cubo Magico), fu rinominato nel 1980 “Rubik’s Cube” dalla Ideal Toys, l’azienda che ne ha curato la distribuzione. Nello stesso anno ha vinto il premio come gioco dell’anno in Germania. Si dice che sia il gioco più venduto al mondo, (imitazioni low cost comprese) con oltre 300 milioni di pezzi.
Fu inizialmente progettato da Rubik a scopi didattici e all’inizio si diffuse solo tra i matematici ungheresi, interessati ai problemi statistici e teorici che il cubo poneva. Qualche anno più tardi un matematico inglese scrisse su quest’oggetto un articolo che portò la sua fama fuori dai confini dell’Ungheria. Nel giro di pochi anni, il cubo di Rubik invase i negozi europei ed americani, diventando il rompicapo più venduto della storia. Oggi esistono anche lettori mp3 a foma di cubo.
Nel solo 1982 ne furono venduti oltre 100 milioni di pezzi e Rubik divenne il cittadino più ricco del suo paese. Ad oggi si svolgono veri e propri Campionati del Mondo nel quale i concorrenti, che giungono da ogni parte del pianeta, si sfidano nel ricomporlo nel minor tempo possibile.
Il record del mondo, ad oggi appartiene a Erik Akkersdijk che lo ha risolto in 7,08 secondi durante gli Open 2008 tenutisi a Pardubice, nella Repubblica Ceca, il 12-13 luglio 2008; nella competizione che tiene conto della media nella risoluzione di 5 cubi, il record appartiene a Yu Nakajima con 11,28 secondi, record ottenuto durante gli Open 2008 tenutisi in Giappone, nella città di Kashiwa il 5 maggio 2008.

IL VIDEO DI UN RECORD
Ecco come un campione risolve il tremendo rompicapo in pochissimi secondi…


Tony Kospan
FONTI… VARI SITI WEB – IMPAGINAZ. T.K.
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Quasi tutti conosciamo l’espressione “andare in brodo di giuggiole”.
E’ un’esclamazione che talvolta sentiamo pronunciare e pronunciamo per sottolineare un momento vissuto con grande soddisfazione.
Il “brodo di giuggiole” non è però uno strano modo di dire bensì un antico e prelibato distillato oggi però difficilmente reperibile nei grandi mercati.

Il fiore
IL GIUGGIOLO… QUESTO SCONOSCIUTO
DESCRIZIONE – STORIA – RICETTA – MODI DI DIRE E…
a cura di Tony Kospan
LA PIANTA

Il giuggiolo (Zizyphus vulgaris) è una pianta alta dai 5 a i 12 metri originaria dell’Africa settentrionale e della Siria che in tempi antichissimi si diffuse in Cina e in India, dove viene coltivato da oltre 4000 anni.
E’ per questo che viene anche chiamato “dattero cinese”.
Presenta un aspetto piuttosto contorto, con rami irregolari e spinosi.
Le foglie di piccole dimensioni, sono d’un verde brillante con margini seghettati mentre i piccoli fiori sono gialli.
LA GIUGGIOLA (IL FRUTTO)

La giuggiola… il frutto… assomiglia ad una grossa oliva dal colore prima verdastro e poi rosso marrone scuro quand’è matura.
La polpa di colore verde è soda e compatta ma farinosa ed ha un leggero sapore dolce.
Spesso il giuggiolo viene innestato nel melo per cui si ha un frutto… la giuggiola-mela… di dimensioni cospicue e dalla polpa zuccherina e soda.
LA STORIA DEL GIUGGIOLO

Già per Erodoto, che definì le giuggiole simili ai datteri, esse potevano essere usate per produrre un vino liquoroso ed inebriante.
Però i Greci le mangiavano anche come frutta.
Narra Omero nell’Odissea che Ulisse e i suoi uomini a causa di una tempesta, si ritrovarono sull’isola dei Lotofagi e che i suoi uomini, si lasciarono tentare dal frutto del loto un frutto che magicamente fece loro dimenticare mogli, famiglie e la nostalgia di casa.
Si ritiene che il loto di cui parla sia lo “Zizyphus lotus”, un giuggiolo selvatico.
Una specie affine, lo “Zizypus spinachristi”, è ritenuto dalla leggenda una delle due piante che servirono a preparare la corona di spine di Gesù.
Dopo un periodo in cui era diventato solo una pianta di nicchia sembra che ora stia tornando di moda.
IL GIUGGIOLO IN ITALIA

I romani per primi lo importarono in Italia chiamandolo”Zyzyphum” e per essi era simbolo del silenzio ed adornava i Templi della Prudenza.
Il termine latino è rimasto nel dialetto veneto “zizoea“.
In Romagna in molte case coloniche era coltivato adiacente alla casa nella zona più riparata ed esposta al sole.
Si riteneva che fosse una pianta portafortuna.
In Veneto ed in particolare a d Arquà Petrarca i giuggioli sono ancora piantati nei giardini di molte abitazioni e le giuggiole sono variamente utilizzate in cucina ed in… cantina.
Oltre all’espressione di cui parlavo all’inizio una volta era diffuso anche chiamare affettuosamente “giuggiolino” i bambini simpatici e grassottelli.
Nella medicina popolare è considerata uno dei quattro frutti “pettorali” con fichi, datteri e uvetta.
Viene usata in infuso o in decotto per prevenire e curare i sintomi da raffreddamento e le infiammazioni alle vie respiratorie.
L’USO ODIERNO

Le giuggiole si consumano sia fresche, appena colte dall’albero, sia quando sono un po’ secche.
C’è un solo nocciolo all’interno simile a quello delle olive.
Si possono trasformare anche in marmellate oppure conservate sotto grappe.
Si fanno anche tisane e sciroppi dolcissimi utilizzati contro la tosse ed anche il famoso… brodo liquoroso.
I frutti sono diuretici, emollienti e lassativi.

IL BRODO DI GIUGGIOLE
LA RICETTA
INGREDIENTI:
– 1 kg di giuggiole
– 1 kg di zucchero
– 2 mele cotogne
– 1 limone non trattato
– 1 litro di vino bianco
– 200 gr di uva isabella o vespolina sgranata
ESECUZIONE:
Prediligete delle giuggiole mature e raggrinzite, che sono poi quelle più dolci, eliminatene il nocciolo.
Mettetele in acqua unitamente alle mele cotogne tagliate a fettine, la scorza di limone, l’uva e lo zucchero, cuocete e dopo un’oretta di cottura a temperatura dolce aggiungete un po’ alla volta il vino di modo che questo possa sostituire l’acqua.
Passate tutto al setaccio.
Il risultato finale deve essere quello di una “marmellatina” tenera e saporita.

IL DETTO:
ANDARE IN BRODO DI GIUGGIOLE
L’espressione nasce a seguito della ricetta con questo nome usata nei paesi intorno al Lago di Garda e considerata una vera e propria prelibatezza.
Viene riportata già nel 1612 nel Vocabolario degli accademici della Crusca e le viene dato il significato di “godere di molto di chicchessia”.
Poi essa si diffuse in tutta Italia e resiste bene ancor oggi… nel senso di “gran godimento“.

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Il suo creatore è stato lo scultore, architetto e designer ungherese
Ernő Rubik, padre non solo dell’omonimo famosissimo cubo,
ma anche di altri giochi analoghi.
Leggeremo ora la storia del mitico… cubo
sia per chi lo conosce,
ma l’ha ormai confinato in un angolo della memoria,
che per le nuove generazioni.
(Ernő Rubik – Budapest 13 luglio 1944)
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IL MITICO ROMPICAPO DEGLI ANNI 80
IL GIOCO – LA STORIA – UN RECORD
COS’E’…?

Il cubo di Rubik, detto anche “Cubo Magico”, è composto da 26 cubetti esterni ed un “cubetto invisibile” interno in cui risiede il meccanismo che permette la rotazione dei piani in tutte le direzioni.
Lo scopo del gioco è di risalire alla posizione originale dei cubetti portando il cubo ad avere per ogni faccia un colore uguale.
Sei lati, ogni lato 9 quadratini colorati, e tutti i lati che si possono muovere sia in orizzontale che in verticale..vi sembra di ricordare, vero? 43.252.003.274.489.856.000 (si, proprio 43 miliardi di miliardi..) di possibili combinazioni, e una sola che portava al risultato agognato, tutte e 6 le facce del colore giusto, nello stesso momento!
Uscito dalla mente malefica di un matematico ungherese, il cubo di Rubik è stato per noi ragazzi degli anni ’80 quello che i Pokemon sono per i ragazzini di oggi, una mania, una febbre da cui non si poteva guarire. In tutti i formati e le dimensioni, ci giocavamo a tutte le ore, a scuola e fuori scuola, anche e soprattutto durante le lezioni.. e mentre per molti l’unica soluzione possibile era quella di staccare i quadratini colorati e attaccarli dove serviva, ai campionati mondiali c’era chi lo completava in meno di 30 secondi!
Ma ecco ora in breve la storia completa di questo mitico rompicapo.
LA STORIA
Il cubo di Rubik (o cubo magico) è un celebre rompicapo inventato dal professore di architettura e scultore ungherese Ernő Rubik il 19 MAGGIO 1974.
Originariamente chiamato dallo stesso inventore (Cubo Magico), fu rinominato nel 1980 “Rubik’s Cube” dalla Ideal Toys, l’azienda che ne ha curato la distribuzione.
Nello stesso anno ha vinto il premio come gioco dell’anno in Germania. Si dice che sia il gioco più venduto al mondo, (imitazioni low cost comprese) con oltre 300 milioni di pezzi.
Fu inizialmente progettato da Rubik a scopi didattici e all’inizio si diffuse solo tra i matematici ungheresi, interessati ai problemi statistici e teorici che il cubo poneva.
Qualche anno più tardi un matematico inglese scrisse su quest’oggetto un articolo che portò la sua fama fuori dai confini dell’Ungheria.
Nel giro di pochi anni, il cubo di Rubik invase i negozi europei ed americani, diventando il rompicapo più venduto della storia.
Oggi esistono anche lettori mp3 a foma di cubo.
Nel solo 1982 ne furono venduti oltre 100 milioni di pezzi e Rubik divenne il cittadino più ricco del suo paese. Ad oggi si svolgono veri e propri Campionati del Mondo nel quale i concorrenti, che giungono da ogni parte del pianeta, si sfidano nel ricomporlo nel minor tempo possibile.
Il record del mondo, ad oggi appartiene a Erik Akkersdijk che lo ha risolto in 7,08 secondi durante gli Open 2008 tenutisi a Pardubice, nella Repubblica Ceca, il 12-13 luglio 2008; nella competizione che tiene conto della media nella risoluzione di 5 cubi, il record appartiene a Yu Nakajima con 11,28 secondi, record ottenuto durante gli Open 2008 tenutisi in Giappone, nella città di Kashiwa il 5 maggio 2008.

IL VIDEO DI UN RECORD
Ecco come un campione risolve il tremendo rompicapo in pochissimi secondi.


Tony Kospan
FONTI… VARI SITI WEB – IMPAGINAZ. T.K.
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Una trasmissione ormai sempre più lontana nel tempo
ma sempre molto vicina ai cuori di coloro che la conobbero.
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STORIA.. IMMAGINI.. PERSONAGGI E VIDEO
DI UNA TRASMISSIONE MITICA
a cura di Tony Kospan
Il 3 febbraio 1957 nasceva il mitico CAROSELLO
e con esso la prima forma di pubblicità televisiva in Italia.
Dura minga
Andava in onda sull’unico Canale Rai dell’epoca.
Iniziava alle ore 20,50 e durava 10 minuti
e dunque finiva immancabilmente alle 21.
Carmencita
Ogni spot, vero mini film, durava circa 155 secondi
ma il messaggio pubblicitario era inserito solo negli ultimi 35.
I filmati avevano contenuti di diversissimo genere
(sketch spesso comici, cartoni animati, mini storie, pupazzi animati etc.).
Qui giù possiamo vedere la mitica sigla
e la relativa musichetta.
L’indimenticabile sigla
Spesso erano veri e propri piccoli capolavori,
delle vere gemme artistiche create da grandi registi
o da bravissimi disegnatori… etc.
Molti personaggi di Carosello erano amatissimi…
come ad es. L’ispettore Rock, Calimero,
Caballero e Carmencita, Papalla, l’Omino coi baffi”,
Linea, “Vigile e il foresto”, “Ulisse e l’ombra” etc.
La Linea di Cavandoli
Indimenticabile e classica era la frase che i genitori
dicevano ai loro bambini…
“E dopo Carosello tutti a nanna”.
Ora non ci resta che un bel ricordo ed un po’ di nostalgia
che, in parte, possiamo ravvivare con questi altri video.
Calimero
e con quest’altro con l’Ispettore Rock e i suoi mini gialli.
CIAO DA TONY KOSPAN
PER LE NOVITA’
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