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“Il gregge” – Racconto bello ed elegante di Miriam Ballerini (con dipinti.. pastorali)   Leave a comment



Non ricordo più dove trovai,

parecchio tempo fa, questo racconto.


L’autrice in seguito l’ho poi conosciuta un po’ (virtualmente)

frequentando il sito di un’amica.


,

Francesco Paolo Michetti – Pastorella con il suo gregge




Grande fu quindi la mia sorpresa nel leggere il suo nome
come autrice di questo bel racconto quando mi tornò tra le mani…
(ohibò… ma si può dir ancora così dato che oggi
grazie al web tutti i documenti sono virtuali?).



Jules Dupré



Si tratta di un racconto che unisce eleganza di prosa,
a realismo, emozione,  dolcezza…
e grande tensione verso una visione positiva della vita.

Vi consiglio di tutto cuore di leggerlo.
 


 
 
Henri Jean Guillaume Martin

.
.
.
.
IL GREGGE
Miriam Ballerini
 
 


Tobia subì l’ennesimo strepito di urla della madre. Nascosto, seduto in cima alle scale, sull’ultimo gradino di legno, quello che scricchiolava meno degli altri; assisteva a un nuovo litigio dei genitori. 
O, forse, era sempre lo stesso che veniva ripresentato in una nuova versione.
“Non ne posso più della tua gelosia!”, gridò suo padre. 
La sua voce salì per la scala a chiocciola, fino a scontrarsi coi suoi piedi imbacuccati in un paio di pantofole a forma di cane.
“E io sono stanca delle tue bugie!” 
Sua madre, se possibile, urlò più forte di prima. 
Il bambino provò a coprirsi le orecchie con le mani, stringendo forte gli occhi, sperando in un qualche rifugio interiore, dove rintanarsi. 
“Basta! Me ne vado!”
“No, caro! Non sei tu che te ne vai, sono io che ti caccio via!” 
Tobia scalciò l’aria nel tentativo di rialzarsi velocemente. 
Rinculò fino alla sua camera, dove indossò le scarpe da ginnastica e il giubbetto che da poco si era tolto, tornando da scuola. 
Dall’alto delle scale vide l’ombra di suo padre stagliata sul muro: un lungo braccio nero che si allungò per aprire la porta, poi, solo il rumore dei suoi passi sul vialetto e l’accendersi del motore dell’auto. 
Tobia discese qualche gradino; sua madre piangeva in cucina, sentiva i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di coprirne il suono lavando i piatti, sbattendoli fra loro nell’acqua saponata. 
Percorse il corridoio piano; delicatamente aprì la porta e la richiuse adagio. 
Aveva otto anni e il pensiero che gli si era presentato alla mente, era semplice e lineare: sottrarsi con la fuga ai litigi dei suoi genitori. 
Si sentiva svigorito, a furia di passare sempre più giornate ad ascoltare le loro urla, inerpicarsi sui gradini fino a raggiungerlo. 
Aveva paura, di un timore semplice che solo una parola sapeva racchiudere interamente: divorzio. 
A scuola sentiva i discorsi degli altri bambini, figli di divorziati: prima erano le urla, poi il silenzio della divisione. 
E loro, i bambini, rimanevano in quella terra di mezzo – una terra di nessuno – sbatacchiati ora da un genitore, ora dall’altro. 
E questo quando ti andava bene: a volte, venivi affidato a mamma e, papà, non si faceva più vivo. 
Senza accorgersene, Tobia camminò per le strade del paese, con le lacrime che a forza di pungergli gli occhi, avevano finito per trovare la loro via d’uscita. 
Si avviò verso la campagna, passando da un sentiero che a volte percorreva con papà, quando uscivano a raccogliere more; con i guanti per non pungersi le mani e i cestini di vimini che finivano per tingersi di blu. 
Superata una modesta altura, venne accolto dal latrare di alcuni cani e si ritrovò circondato da pecore, agnellini e un paio d’asini! 
Due pastori sedevano su dei massi, intenti a mangiarsi un panino, mentre custodivano il loro gregge. 
Quando i loro animali avessero ripulito a dovere quel campo, si sarebbero spostati in cerca di una nuova pastura. 
Tobia si soffermò ai margini di quell’insieme bianco sporco, belante, ad osservare gli agnellini che trotterellavano intorno alle zampe degli adulti. 
Trascorse così alcune ore, divertendosi ad accarezzare la lana sporca delle pecore e quella più candida dei loro cuccioli. 
I quali si avvicinavano giusto il tempo per farsi accarezzare il muso rosa, e poi scappare via. 
I suoi genitori, nel frattempo, si erano riconciliati, come sempre accadeva dopo le loro liti. 
Per il bene di Tobia, perché non c’erano davvero questi grandi motivi di contrasto. 
Erano la tensione, i malumori raccolti sul lavoro che andavano sfogati in qualche futile scontro; per liberarsi da quel catarro vischioso prodotto dallo stress. 
E poi, ancora si guardavano con negli occhi il velo dell’amore. 
Forse era un po’ rattoppato, logoro, ma pur sempre lì, a fungere da mantello per ripararsi l’un l’altro. 
La donna scese le scale di corsa, allarmata: “Tobia non c’è!”
“Non c’è?”
“Era in camera sua a fare i compiti. Non ci sono nemmeno più le sue scarpe!” 
Si guardarono, lei con le guance arrossate per la corsa, lui pallido, sbiancato dall’ angoscia.
Uscirono di casa, scordandosi di coprirsi.
Il freddo di dicembre li avvinghiò appena li ebbe fra le sue braccia.
Cominciarono a cercarlo dai vicini, nei negozi, nei bar. 
Fra le vie del paese agghindate con file di luci colorate e alberi di Natale, a recitare auguri con le scritte a intermittenza. 
Infine, udirono dei belati giungere dalla campagna, e le voci di alcuni uomini che chiedevano aiuto. 
I due coniugi di precipitarono verso quei suoni, davanti ai loro occhi si presentò una scena tremenda: le pecore erano discese tutte insieme da una collina che era franata sotto al loro peso, fra rovi e alberelli. 
Le bestie che erano scese per prime, stavano distese a terra, schiacciate dalle altre. 
I pastori tentavano di allontanare il resto del gregge, per impedirgli di finire anch’essi soffocati. 
Tobia corse loro incontro: “Mamma! Papà! Dobbiamo aiutarli!”
La madre lo afferrò per le spalle: “Io e te stiamo qui, è pericoloso”. 
Il padre si gettò fra le ressa di animali spaventati, sbattendo le mani e urlando, per far allontanare le altre pecore. 
Nonostante gli sforzi di tutte le persone accorse, e i pastori che provarono a rianimare le pecore praticando loro la respirazione bocca a bocca, per venti animali non ci fu nulla da fare. 
Tobia, stretto fra i genitori, rimase lì a guardare gli agnellini che richiamavano le loro madri defunte, distese in mezzo all’erba con le zampe levate in aria. 
La madre lo abbracciò stretto: “Vieni, torniamo a casa”.
“E adesso?”
Il padre si incamminò con loro, esausto, sporco. “Adesso ci penseranno i pastori. 
Ai piccoli rimasti orfani daranno loro il latte”. 
Entrarono in casa e il padre sedette con Tobia sul primo gradino della scala. “Tesoro, perché sei scappato?”
“Litigavate”.
Il bambino volse verso di lui due occhioni pieni di lacrime: “Litigate sempre! Io non voglio che divorziate”. 
La madre gli si inginocchiò accanto: “Tobia, papà e io ci vogliamo bene. Siamo un po’ nervosi, è vero, ma non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci”. 
“E di lasciare me?” pensò alle zampe di quelle povere bestie, coi piccoli zoccoli appuntiti a indicare un posto lontano del campo. 
“Ma cosa dici?” Suo padre gli accarezzò i capelli. “Non pensarlo nemmeno”.
“Io e papà siamo un po’ come quei pastori che hai conosciuto oggi: per la nostra famiglia faremmo di tutto. 
Hai visto come hanno tentato di salvare il loro gregge? Noi faremmo lo stesso per te. Tu sei il nostro agnellino!” 
Sua madre lo baciò sulla fronte. “Il più bell’agnellino che abbia mai visto!” 
Tobia rise fra le lacrime, tirando su col naso gli ultimi singhiozzi che ancora aveva in gola. “E tu e papà siete due pecore?” 
“Bhè…io un bell’ariete, e mamma una pecora con tanta lana!” 
Risero, abbracciandosi, ritrovandosi in quell’amara esperienza.
********* 
Il giorno dopo degli uomini caricarono su di un camion le carcasse degli animali morti, per portarli all’inceneritore. 
Il gregge, nonostante la tremenda sciagura, proseguì nel suo viaggio. 
Tobia, divenuto adulto, non scordò mai quelle povere bestie morte schiacciate e l’impegno messo dai pastori per salvarle. 
Divenne padre di famiglia e, un giorno, si ritrovò a raccontare questa storia ai suoi figli. 
“… i miei genitori mi consolarono facendo questo esempio, da allora, ho sempre pensato alla famiglia come a un gregge: unita”.



Pellizza da Volpedo


 Ciao da Tony Kospan




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Frecce (174)





Francesco Paolo Michetti – Ritorno all’ovile




“Il gregge” – Bello ed elegante questo racconto di Miriam Ballerini (con dipinti.. pastorali)   Leave a comment



Non ricordo più dove trovai,

parecchio tempo fa, questo racconto.


L’autrice in seguito l’ho poi conosciuta un po’ (virtualmente)

frequentando il sito di un’amica.


,

Francesco Paolo Michetti – Pastorella con il suo gregge




Grande fu quindi la mia sorpresa nel leggere il suo nome
come autrice di questo bel racconto quando mi tornò tra le mani…
(ohibò… ma si può dir ancora così dato che oggi
grazie al web tutti i documenti sono virtuali?).



Jules Dupré



Si tratta di un racconto che unisce eleganza di prosa,
a realismo, emozione,  dolcezza…
e grande tensione verso una visione positiva della vita.

Vi consiglio di tutto cuore di leggerlo.
 


 
 
Henri Jean Guillaume Martin

.
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IL GREGGE
Miriam Ballerini
 
 


Tobia subì l’ennesimo strepito di urla della madre. Nascosto, seduto in cima alle scale, sull’ultimo gradino di legno, quello che scricchiolava meno degli altri; assisteva a un nuovo litigio dei genitori. 
O, forse, era sempre lo stesso che veniva ripresentato in una nuova versione.
“Non ne posso più della tua gelosia!”, gridò suo padre. 
La sua voce salì per la scala a chiocciola, fino a scontrarsi coi suoi piedi imbacuccati in un paio di pantofole a forma di cane.
“E io sono stanca delle tue bugie!” 
Sua madre, se possibile, urlò più forte di prima. 
Il bambino provò a coprirsi le orecchie con le mani, stringendo forte gli occhi, sperando in un qualche rifugio interiore, dove rintanarsi. 
“Basta! Me ne vado!”
“No, caro! Non sei tu che te ne vai, sono io che ti caccio via!” 
Tobia scalciò l’aria nel tentativo di rialzarsi velocemente. 
Rinculò fino alla sua camera, dove indossò le scarpe da ginnastica e il giubbetto che da poco si era tolto, tornando da scuola. 
Dall’alto delle scale vide l’ombra di suo padre stagliata sul muro: un lungo braccio nero che si allungò per aprire la porta, poi, solo il rumore dei suoi passi sul vialetto e l’accendersi del motore dell’auto. 
Tobia discese qualche gradino; sua madre piangeva in cucina, sentiva i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di coprirne il suono lavando i piatti, sbattendoli fra loro nell’acqua saponata. 
Percorse il corridoio piano; delicatamente aprì la porta e la richiuse adagio. 
Aveva otto anni e il pensiero che gli si era presentato alla mente, era semplice e lineare: sottrarsi con la fuga ai litigi dei suoi genitori. 
Si sentiva svigorito, a furia di passare sempre più giornate ad ascoltare le loro urla, inerpicarsi sui gradini fino a raggiungerlo. 
Aveva paura, di un timore semplice che solo una parola sapeva racchiudere interamente: divorzio. 
A scuola sentiva i discorsi degli altri bambini, figli di divorziati: prima erano le urla, poi il silenzio della divisione. 
E loro, i bambini, rimanevano in quella terra di mezzo – una terra di nessuno – sbatacchiati ora da un genitore, ora dall’altro. 
E questo quando ti andava bene: a volte, venivi affidato a mamma e, papà, non si faceva più vivo. 
Senza accorgersene, Tobia camminò per le strade del paese, con le lacrime che a forza di pungergli gli occhi, avevano finito per trovare la loro via d’uscita. 
Si avviò verso la campagna, passando da un sentiero che a volte percorreva con papà, quando uscivano a raccogliere more; con i guanti per non pungersi le mani e i cestini di vimini che finivano per tingersi di blu. 
Superata una modesta altura, venne accolto dal latrare di alcuni cani e si ritrovò circondato da pecore, agnellini e un paio d’asini! 
Due pastori sedevano su dei massi, intenti a mangiarsi un panino, mentre custodivano il loro gregge. 
Quando i loro animali avessero ripulito a dovere quel campo, si sarebbero spostati in cerca di una nuova pastura. 
Tobia si soffermò ai margini di quell’insieme bianco sporco, belante, ad osservare gli agnellini che trotterellavano intorno alle zampe degli adulti. 
Trascorse così alcune ore, divertendosi ad accarezzare la lana sporca delle pecore e quella più candida dei loro cuccioli. 
I quali si avvicinavano giusto il tempo per farsi accarezzare il muso rosa, e poi scappare via. 
I suoi genitori, nel frattempo, si erano riconciliati, come sempre accadeva dopo le loro liti. 
Per il bene di Tobia, perché non c’erano davvero questi grandi motivi di contrasto. 
Erano la tensione, i malumori raccolti sul lavoro che andavano sfogati in qualche futile scontro; per liberarsi da quel catarro vischioso prodotto dallo stress. 
E poi, ancora si guardavano con negli occhi il velo dell’amore. 
Forse era un po’ rattoppato, logoro, ma pur sempre lì, a fungere da mantello per ripararsi l’un l’altro. 
La donna scese le scale di corsa, allarmata: “Tobia non c’è!”
“Non c’è?”
“Era in camera sua a fare i compiti. Non ci sono nemmeno più le sue scarpe!” 
Si guardarono, lei con le guance arrossate per la corsa, lui pallido, sbiancato dall’ angoscia.
Uscirono di casa, scordandosi di coprirsi.
Il freddo di dicembre li avvinghiò appena li ebbe fra le sue braccia.
Cominciarono a cercarlo dai vicini, nei negozi, nei bar. 
Fra le vie del paese agghindate con file di luci colorate e alberi di Natale, a recitare auguri con le scritte a intermittenza. 
Infine, udirono dei belati giungere dalla campagna, e le voci di alcuni uomini che chiedevano aiuto. 
I due coniugi di precipitarono verso quei suoni, davanti ai loro occhi si presentò una scena tremenda: le pecore erano discese tutte insieme da una collina che era franata sotto al loro peso, fra rovi e alberelli. 
Le bestie che erano scese per prime, stavano distese a terra, schiacciate dalle altre. 
I pastori tentavano di allontanare il resto del gregge, per impedirgli di finire anch’essi soffocati. 
Tobia corse loro incontro: “Mamma! Papà! Dobbiamo aiutarli!”
La madre lo afferrò per le spalle: “Io e te stiamo qui, è pericoloso”. 
Il padre si gettò fra le ressa di animali spaventati, sbattendo le mani e urlando, per far allontanare le altre pecore. 
Nonostante gli sforzi di tutte le persone accorse, e i pastori che provarono a rianimare le pecore praticando loro la respirazione bocca a bocca, per venti animali non ci fu nulla da fare. 
Tobia, stretto fra i genitori, rimase lì a guardare gli agnellini che richiamavano le loro madri defunte, distese in mezzo all’erba con le zampe levate in aria. 
La madre lo abbracciò stretto: “Vieni, torniamo a casa”.
“E adesso?”
Il padre si incamminò con loro, esausto, sporco. “Adesso ci penseranno i pastori. 
Ai piccoli rimasti orfani daranno loro il latte”. 
Entrarono in casa e il padre sedette con Tobia sul primo gradino della scala. “Tesoro, perché sei scappato?”
“Litigavate”.
Il bambino volse verso di lui due occhioni pieni di lacrime: “Litigate sempre! Io non voglio che divorziate”. 
La madre gli si inginocchiò accanto: “Tobia, papà e io ci vogliamo bene. Siamo un po’ nervosi, è vero, ma non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci”. 
“E di lasciare me?” pensò alle zampe di quelle povere bestie, coi piccoli zoccoli appuntiti a indicare un posto lontano del campo. 
“Ma cosa dici?” Suo padre gli accarezzò i capelli. “Non pensarlo nemmeno”.
“Io e papà siamo un po’ come quei pastori che hai conosciuto oggi: per la nostra famiglia faremmo di tutto. 
Hai visto come hanno tentato di salvare il loro gregge? Noi faremmo lo stesso per te. Tu sei il nostro agnellino!” 
Sua madre lo baciò sulla fronte. “Il più bell’agnellino che abbia mai visto!” 
Tobia rise fra le lacrime, tirando su col naso gli ultimi singhiozzi che ancora aveva in gola. “E tu e papà siete due pecore?” 
“Bhè…io un bell’ariete, e mamma una pecora con tanta lana!” 
Risero, abbracciandosi, ritrovandosi in quell’amara esperienza.
********* 
Il giorno dopo degli uomini caricarono su di un camion le carcasse degli animali morti, per portarli all’inceneritore. 
Il gregge, nonostante la tremenda sciagura, proseguì nel suo viaggio. 
Tobia, divenuto adulto, non scordò mai quelle povere bestie morte schiacciate e l’impegno messo dai pastori per salvarle. 
Divenne padre di famiglia e, un giorno, si ritrovò a raccontare questa storia ai suoi figli. 
“… i miei genitori mi consolarono facendo questo esempio, da allora, ho sempre pensato alla famiglia come a un gregge: unita”.



Pellizza da Volpedo


 Ciao da Tony Kospan




Barra21CAhomeiwao

POESIA E CULTURA NELLA PAGINA FB

Frecce (174)





Francesco Paolo Michetti – Ritorno all’ovile




“Il gregge” – Bello ed elegante davvero questo racconto di Miriam Ballerini (con dipinti.. pastorali)   Leave a comment



Non ricordo più dove trovai,

parecchio tempo fa, questo racconto.


L’autrice in seguito l’ho poi conosciuta un po’ (virtualmente)

frequentando il sito di un’amica.


,

Francesco Paolo Michetti – Pastorella con il suo gregge




Grande fu quindi la mia sorpresa nel leggere il suo nome
come autrice di questo bel racconto quando mi tornò tra le mani…
(ohibò… ma si può dir ancora così dato che oggi
grazie al web tutti i documenti sono virtuali?).



Jules Dupré



Si tratta di un racconto che unisce eleganza di prosa,
a realismo, emozione,  dolcezza…
e grande tensione verso una visione positiva della vita.

Vi consiglio di tutto cuore di leggerlo.
 


 
 
Henri Jean Guillaume Martin

.
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IL GREGGE
Miriam Ballerini
 
 


Tobia subì l’ennesimo strepito di urla della madre. Nascosto, seduto in cima alle scale, sull’ultimo gradino di legno, quello che scricchiolava meno degli altri; assisteva a un nuovo litigio dei genitori. 
O, forse, era sempre lo stesso che veniva ripresentato in una nuova versione.
“Non ne posso più della tua gelosia!”, gridò suo padre. 
La sua voce salì per la scala a chiocciola, fino a scontrarsi coi suoi piedi imbacuccati in un paio di pantofole a forma di cane.
“E io sono stanca delle tue bugie!” 
Sua madre, se possibile, urlò più forte di prima. 
Il bambino provò a coprirsi le orecchie con le mani, stringendo forte gli occhi, sperando in un qualche rifugio interiore, dove rintanarsi. 
“Basta! Me ne vado!”
“No, caro! Non sei tu che te ne vai, sono io che ti caccio via!” 
Tobia scalciò l’aria nel tentativo di rialzarsi velocemente. 
Rinculò fino alla sua camera, dove indossò le scarpe da ginnastica e il giubbetto che da poco si era tolto, tornando da scuola. 
Dall’alto delle scale vide l’ombra di suo padre stagliata sul muro: un lungo braccio nero che si allungò per aprire la porta, poi, solo il rumore dei suoi passi sul vialetto e l’accendersi del motore dell’auto. 
Tobia discese qualche gradino; sua madre piangeva in cucina, sentiva i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di coprirne il suono lavando i piatti, sbattendoli fra loro nell’acqua saponata. 
Percorse il corridoio piano; delicatamente aprì la porta e la richiuse adagio. 
Aveva otto anni e il pensiero che gli si era presentato alla mente, era semplice e lineare: sottrarsi con la fuga ai litigi dei suoi genitori. 
Si sentiva svigorito, a furia di passare sempre più giornate ad ascoltare le loro urla, inerpicarsi sui gradini fino a raggiungerlo. 
Aveva paura, di un timore semplice che solo una parola sapeva racchiudere interamente: divorzio. 
A scuola sentiva i discorsi degli altri bambini, figli di divorziati: prima erano le urla, poi il silenzio della divisione. 
E loro, i bambini, rimanevano in quella terra di mezzo – una terra di nessuno – sbatacchiati ora da un genitore, ora dall’altro. 
E questo quando ti andava bene: a volte, venivi affidato a mamma e, papà, non si faceva più vivo. 
Senza accorgersene, Tobia camminò per le strade del paese, con le lacrime che a forza di pungergli gli occhi, avevano finito per trovare la loro via d’uscita. 
Si avviò verso la campagna, passando da un sentiero che a volte percorreva con papà, quando uscivano a raccogliere more; con i guanti per non pungersi le mani e i cestini di vimini che finivano per tingersi di blu. 
Superata una modesta altura, venne accolto dal latrare di alcuni cani e si ritrovò circondato da pecore, agnellini e un paio d’asini! 
Due pastori sedevano su dei massi, intenti a mangiarsi un panino, mentre custodivano il loro gregge. 
Quando i loro animali avessero ripulito a dovere quel campo, si sarebbero spostati in cerca di una nuova pastura. 
Tobia si soffermò ai margini di quell’insieme bianco sporco, belante, ad osservare gli agnellini che trotterellavano intorno alle zampe degli adulti. 
Trascorse così alcune ore, divertendosi ad accarezzare la lana sporca delle pecore e quella più candida dei loro cuccioli. 
I quali si avvicinavano giusto il tempo per farsi accarezzare il muso rosa, e poi scappare via. 
I suoi genitori, nel frattempo, si erano riconciliati, come sempre accadeva dopo le loro liti. 
Per il bene di Tobia, perché non c’erano davvero questi grandi motivi di contrasto. 
Erano la tensione, i malumori raccolti sul lavoro che andavano sfogati in qualche futile scontro; per liberarsi da quel catarro vischioso prodotto dallo stress. 
E poi, ancora si guardavano con negli occhi il velo dell’amore. 
Forse era un po’ rattoppato, logoro, ma pur sempre lì, a fungere da mantello per ripararsi l’un l’altro. 
La donna scese le scale di corsa, allarmata: “Tobia non c’è!”
“Non c’è?”
“Era in camera sua a fare i compiti. Non ci sono nemmeno più le sue scarpe!” 
Si guardarono, lei con le guance arrossate per la corsa, lui pallido, sbiancato dall’ angoscia.
Uscirono di casa, scordandosi di coprirsi.
Il freddo di dicembre li avvinghiò appena li ebbe fra le sue braccia.
Cominciarono a cercarlo dai vicini, nei negozi, nei bar. 
Fra le vie del paese agghindate con file di luci colorate e alberi di Natale, a recitare auguri con le scritte a intermittenza. 
Infine, udirono dei belati giungere dalla campagna, e le voci di alcuni uomini che chiedevano aiuto. 
I due coniugi di precipitarono verso quei suoni, davanti ai loro occhi si presentò una scena tremenda: le pecore erano discese tutte insieme da una collina che era franata sotto al loro peso, fra rovi e alberelli. 
Le bestie che erano scese per prime, stavano distese a terra, schiacciate dalle altre. 
I pastori tentavano di allontanare il resto del gregge, per impedirgli di finire anch’essi soffocati. 
Tobia corse loro incontro: “Mamma! Papà! Dobbiamo aiutarli!”
La madre lo afferrò per le spalle: “Io e te stiamo qui, è pericoloso”. 
Il padre si gettò fra le ressa di animali spaventati, sbattendo le mani e urlando, per far allontanare le altre pecore. 
Nonostante gli sforzi di tutte le persone accorse, e i pastori che provarono a rianimare le pecore praticando loro la respirazione bocca a bocca, per venti animali non ci fu nulla da fare. 
Tobia, stretto fra i genitori, rimase lì a guardare gli agnellini che richiamavano le loro madri defunte, distese in mezzo all’erba con le zampe levate in aria. 
La madre lo abbracciò stretto: “Vieni, torniamo a casa”.
“E adesso?”
Il padre si incamminò con loro, esausto, sporco. “Adesso ci penseranno i pastori. 
Ai piccoli rimasti orfani daranno loro il latte”. 
Entrarono in casa e il padre sedette con Tobia sul primo gradino della scala. “Tesoro, perché sei scappato?”
“Litigavate”.
Il bambino volse verso di lui due occhioni pieni di lacrime: “Litigate sempre! Io non voglio che divorziate”. 
La madre gli si inginocchiò accanto: “Tobia, papà e io ci vogliamo bene. Siamo un po’ nervosi, è vero, ma non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci”. 
“E di lasciare me?” pensò alle zampe di quelle povere bestie, coi piccoli zoccoli appuntiti a indicare un posto lontano del campo. 
“Ma cosa dici?” Suo padre gli accarezzò i capelli. “Non pensarlo nemmeno”.
“Io e papà siamo un po’ come quei pastori che hai conosciuto oggi: per la nostra famiglia faremmo di tutto. 
Hai visto come hanno tentato di salvare il loro gregge? Noi faremmo lo stesso per te. Tu sei il nostro agnellino!” 
Sua madre lo baciò sulla fronte. “Il più bell’agnellino che abbia mai visto!” 
Tobia rise fra le lacrime, tirando su col naso gli ultimi singhiozzi che ancora aveva in gola. “E tu e papà siete due pecore?” 
“Bhè…io un bell’ariete, e mamma una pecora con tanta lana!” 
Risero, abbracciandosi, ritrovandosi in quell’amara esperienza.
********* 
Il giorno dopo degli uomini caricarono su di un camion le carcasse degli animali morti, per portarli all’inceneritore. 
Il gregge, nonostante la tremenda sciagura, proseguì nel suo viaggio. 
Tobia, divenuto adulto, non scordò mai quelle povere bestie morte schiacciate e l’impegno messo dai pastori per salvarle. 
Divenne padre di famiglia e, un giorno, si ritrovò a raccontare questa storia ai suoi figli. 
“… i miei genitori mi consolarono facendo questo esempio, da allora, ho sempre pensato alla famiglia come a un gregge: unita”.



Pellizza da Volpedo


 Ciao da Tony Kospan




UN MODO DIVERSO DI VIVER


LA POESIA E LA CULTURA


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Francesco Paolo Michetti – Ritorno all’ovile




“Il gregge” di Miriam Ballerini – Un racconto davvero bello ed elegante   Leave a comment



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L’autrice in seguito l’ho poi conosciuta un po' (virtualmente)

frequentando il sito di un'amica


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Grande fu quindi la mia sorpresa nel leggere il suo nome
come autrice di questo bel racconto quando mi tornò tra le mani…
(ohibò… ma si può dir ancora così dato che oggi
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Jules Dupré



Si tratta di un racconto che unisce eleganza di prosa,
a realismo, emozione,  dolcezza…
e grande tensione verso una visione positiva della vita.

Vi consiglio di tutto cuore di leggerlo.
 


 
 
Henri Jean Guillaume Martin

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IL GREGGE
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Tobia subì l’ennesimo strepito di urla della madre. Nascosto, seduto in cima alle scale, sull’ultimo gradino di legno, quello che scricchiolava meno degli altri; assisteva a un nuovo litigio dei genitori. O, forse, era sempre lo stesso che veniva ripresentato in una nuova versione.
“Non ne posso più della tua gelosia!”, gridò suo padre.
La sua voce salì per la scala a chiocciola, fino a scontrarsi coi suoi piedi imbacuccati in un paio di pantofole a forma di cane.
“E io sono stanca delle tue bugie!” 
Sua madre, se possibile, urlò più forte di prima.
Il bambino provò a coprirsi le orecchie con le mani, stringendo forte gli occhi, sperando in un qualche rifugio interiore, dove rintanarsi.
“Basta! Me ne vado!”
“No, caro! Non sei tu che te ne vai, sono io che ti caccio via!”
Tobia scalciò l’aria nel tentativo di rialzarsi velocemente. 
Rinculò fino alla sua camera, dove indossò le scarpe da ginnastica e il giubbetto che da poco si era tolto, tornando da scuola.
Dall’alto delle scale vide l’ombra di suo padre stagliata sul muro: un lungo braccio nero che si allungò per aprire la porta, poi, solo il rumore dei suoi passi sul vialetto e l’accendersi del motore dell’auto.
Tobia discese qualche gradino; sua madre piangeva in cucina, sentiva i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di coprirne il suono lavando i piatti, sbattendoli fra loro nell’acqua saponata.
Percorse il corridoio piano; delicatamente aprì la porta e la richiuse adagio.
Aveva otto anni e il pensiero che gli si era presentato alla mente, era semplice e lineare: sottrarsi con la fuga ai litigi dei suoi genitori. 
Si sentiva svigorito, a furia di passare sempre più giornate ad ascoltare le loro urla, inerpicarsi sui gradini fino a raggiungerlo. 
Aveva paura, di un timore semplice che solo una parola sapeva racchiudere interamente: divorzio.
A scuola sentiva i discorsi degli altri bambini, figli di divorziati: prima erano le urla, poi il silenzio della divisione. 
E loro, i bambini, rimanevano in quella terra di mezzo – una terra di nessuno – sbatacchiati ora da un genitore, ora dall’altro. 
E questo quando ti andava bene: a volte, venivi affidato a mamma e, papà, non si faceva più vivo.
Senza accorgersene, Tobia camminò per le strade del paese, con le lacrime che a forza di pungergli gli occhi, avevano finito per trovare la loro via d’uscita.
Si avviò verso la campagna, passando da un sentiero che a volte percorreva con papà, quando uscivano a raccogliere more; con i guanti per non pungersi le mani e i cestini di vimini che finivano per tingersi di blu.
Superata una modesta altura, venne accolto dal latrare di alcuni cani e si ritrovò circondato da pecore, agnellini e un paio d’asini! 
Due pastori sedevano su dei massi, intenti a mangiarsi un panino, mentre custodivano il loro gregge. 
Quando i loro animali avessero ripulito a dovere quel campo, si sarebbero spostati in cerca di una nuova pastura.
Tobia si soffermò ai margini di quell’insieme bianco sporco, belante, ad osservare gli agnellini che trotterellavano intorno alle zampe degli adulti.
Trascorse così  alcune ore, divertendosi ad accarezzare la lana sporca delle pecore e quella più candida dei loro cuccioli. 
I quali si avvicinavano giusto il tempo per farsi accarezzare il muso rosa, e poi scappare via.
I suoi genitori, nel frattempo, si erano riconciliati, come sempre accadeva dopo le loro liti. 
Per il bene di Tobia, perché non c’erano davvero questi grandi motivi di contrasto. 
Erano la tensione, i malumori raccolti sul lavoro che andavano sfogati in qualche futile scontro; per liberarsi da quel catarro vischioso prodotto dallo stress. 
E poi, ancora si guardavano con negli occhi il velo dell’amore. 
Forse era un po’ rattoppato, logoro, ma pur sempre lì, a fungere da mantello per ripararsi l’un l’altro.
La donna scese le scale di corsa, allarmata: “Tobia non c’è!”
“Non c’è?”
“Era in camera sua a fare i compiti. Non ci sono nemmeno più le sue scarpe!”
Si guardarono, lei con le guance arrossate per la corsa, lui pallido, sbiancato dall’ angoscia.
Uscirono di casa, scordandosi di coprirsi.
Il freddo di dicembre li avvinghiò appena li ebbe fra le sue braccia.
Cominciarono a cercarlo dai vicini, nei negozi, nei bar. 
Fra le vie del paese agghindate con file di luci colorate e alberi di Natale, a recitare auguri con le scritte a intermittenza.
Infine, udirono dei belati giungere dalla campagna, e le voci di alcuni uomini che chiedevano aiuto. 
I due coniugi di precipitarono verso quei suoni, davanti ai loro occhi si presentò una scena tremenda: le pecore erano discese tutte insieme da una collina che era franata sotto al loro peso, fra rovi e alberelli. 
Le bestie che erano scese per prime, stavano distese a terra, schiacciate dalle altre. 
I pastori tentavano di allontanare il resto del gregge, per impedirgli di finire anch’essi soffocati.
Tobia corse loro incontro: “Mamma! Papà! Dobbiamo aiutarli!”
La madre lo afferrò per le spalle: “Io e te stiamo qui, è pericoloso”.
Il padre si gettò fra le ressa di animali spaventati, sbattendo le mani e urlando, per far allontanare le altre pecore.
Nonostante gli sforzi di tutte le persone accorse, e i pastori che provarono a rianimare le pecore praticando loro la respirazione bocca a bocca, per venti animali non ci fu nulla da fare.
Tobia, stretto fra i genitori, rimase lì a guardare gli agnellini che richiamavano le loro madri defunte, distese in mezzo all’erba con le zampe levate in aria.
La madre lo abbracciò stretto: “Vieni, torniamo a casa”.
“E adesso?”
Il padre si incamminò con loro, esausto, sporco. “Adesso ci penseranno i pastori. 
Ai piccoli rimasti orfani daranno loro il latte”.
Entrarono in casa e il padre sedette con Tobia sul primo gradino della scala. “Tesoro, perché sei scappato?”
“Litigavate”.
Il bambino volse verso di lui due occhioni pieni di lacrime: “Litigate sempre! Io non voglio che divorziate”.
La madre gli si inginocchiò accanto: “Tobia, papà e io ci vogliamo bene. Siamo un po’ nervosi, è vero, ma non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci”.
“E di lasciare me?” pensò alle zampe di quelle povere bestie, coi piccoli zoccoli appuntiti a indicare un posto lontano del campo.
“Ma cosa dici?” Suo padre gli accarezzò i capelli. “Non pensarlo nemmeno”.
“Io e papà siamo un po’ come quei pastori che hai conosciuto oggi: per la nostra famiglia faremmo di tutto. Hai visto come hanno tentato di salvare il loro gregge? Noi faremmo lo stesso per te. Tu sei il nostro agnellino!” Sua madre lo baciò sulla fronte. “Il più bell’agnellino che abbia mai visto!”
Tobia rise fra le lacrime, tirando su col naso gli ultimi singhiozzi che ancora aveva in gola. “E tu e papà siete due pecore?”
“Bhè…io un bell’ariete, e mamma una pecora con tanta lana!”
Risero, abbracciandosi, ritrovandosi in quell’amara esperienza.
*********
Il giorno dopo degli uomini caricarono su di un camion le carcasse degli animali morti, per portarli all’inceneritore.
Il gregge, nonostante la tremenda sciagura, proseguì nel suo viaggio.
Tobia, divenuto adulto, non scordò mai quelle povere bestie morte schiacciate e l’impegno messo dai pastori per salvarle.
Divenne padre di famiglia e, un giorno, si ritrovò a raccontare questa storia ai suoi figli.
“… i miei genitori mi consolarono facendo questo esempio, da allora, ho sempre pensato alla famiglia come a un gregge: unita”.



Pellizza da Volpedo

 Ciao da Tony Kospan




UN MODO DIVERSO DI VIVER


LA POESIA E LA CULTURA


NELLA PAGINA FB





Francesco Paolo Michetti – Pastorella con il suo gregge




Il gregge – Racconto davvero bello ed elegante di Miriam Ballerini   2 comments



Non ricordo più dove trovai,

parecchio tempo fa, questo racconto.


L’autrice in seguito l’ho poi conosciuta un po’ (virtualmente)

frequentando il sito di un’amica.


,

Francesco Paolo Michetti – Pastorella con il suo gregge




Grande fu quindi la mia sorpresa nel leggere il suo nome
come autrice di questo bel racconto quando mi tornò tra le mani…
(ohibò… ma si può dir ancora così dato che oggi
grazie al web tutti i documenti sono virtuali?).



Jules Dupré



Si tratta di un racconto che unisce eleganza di prosa,
a realismo, emozione,  dolcezza…
e grande tensione verso una visione positiva della vita.

Vi consiglio di tutto cuore di leggerlo.
 


 
 
Henri Jean Guillaume Martin

.
.
.
.
IL GREGGE
Miriam Ballerini
 
 


Tobia subì l’ennesimo strepito di urla della madre. Nascosto, seduto in cima alle scale, sull’ultimo gradino di legno, quello che scricchiolava meno degli altri; assisteva a un nuovo litigio dei genitori. 
O, forse, era sempre lo stesso che veniva ripresentato in una nuova versione.
“Non ne posso più della tua gelosia!”, gridò suo padre. 
La sua voce salì per la scala a chiocciola, fino a scontrarsi coi suoi piedi imbacuccati in un paio di pantofole a forma di cane.
“E io sono stanca delle tue bugie!” 
Sua madre, se possibile, urlò più forte di prima. 
Il bambino provò a coprirsi le orecchie con le mani, stringendo forte gli occhi, sperando in un qualche rifugio interiore, dove rintanarsi. 
“Basta! Me ne vado!”
“No, caro! Non sei tu che te ne vai, sono io che ti caccio via!” 
Tobia scalciò l’aria nel tentativo di rialzarsi velocemente. 
Rinculò fino alla sua camera, dove indossò le scarpe da ginnastica e il giubbetto che da poco si era tolto, tornando da scuola. 
Dall’alto delle scale vide l’ombra di suo padre stagliata sul muro: un lungo braccio nero che si allungò per aprire la porta, poi, solo il rumore dei suoi passi sul vialetto e l’accendersi del motore dell’auto. 
Tobia discese qualche gradino; sua madre piangeva in cucina, sentiva i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di coprirne il suono lavando i piatti, sbattendoli fra loro nell’acqua saponata. 
Percorse il corridoio piano; delicatamente aprì la porta e la richiuse adagio. 
Aveva otto anni e il pensiero che gli si era presentato alla mente, era semplice e lineare: sottrarsi con la fuga ai litigi dei suoi genitori. 
Si sentiva svigorito, a furia di passare sempre più giornate ad ascoltare le loro urla, inerpicarsi sui gradini fino a raggiungerlo. 
Aveva paura, di un timore semplice che solo una parola sapeva racchiudere interamente: divorzio. 
A scuola sentiva i discorsi degli altri bambini, figli di divorziati: prima erano le urla, poi il silenzio della divisione. 
E loro, i bambini, rimanevano in quella terra di mezzo – una terra di nessuno – sbatacchiati ora da un genitore, ora dall’altro. 
E questo quando ti andava bene: a volte, venivi affidato a mamma e, papà, non si faceva più vivo. 
Senza accorgersene, Tobia camminò per le strade del paese, con le lacrime che a forza di pungergli gli occhi, avevano finito per trovare la loro via d’uscita. 
Si avviò verso la campagna, passando da un sentiero che a volte percorreva con papà, quando uscivano a raccogliere more; con i guanti per non pungersi le mani e i cestini di vimini che finivano per tingersi di blu. 
Superata una modesta altura, venne accolto dal latrare di alcuni cani e si ritrovò circondato da pecore, agnellini e un paio d’asini! 
Due pastori sedevano su dei massi, intenti a mangiarsi un panino, mentre custodivano il loro gregge. 
Quando i loro animali avessero ripulito a dovere quel campo, si sarebbero spostati in cerca di una nuova pastura. 
Tobia si soffermò ai margini di quell’insieme bianco sporco, belante, ad osservare gli agnellini che trotterellavano intorno alle zampe degli adulti. 
Trascorse così alcune ore, divertendosi ad accarezzare la lana sporca delle pecore e quella più candida dei loro cuccioli. 
I quali si avvicinavano giusto il tempo per farsi accarezzare il muso rosa, e poi scappare via. 
I suoi genitori, nel frattempo, si erano riconciliati, come sempre accadeva dopo le loro liti. 
Per il bene di Tobia, perché non c’erano davvero questi grandi motivi di contrasto. 
Erano la tensione, i malumori raccolti sul lavoro che andavano sfogati in qualche futile scontro; per liberarsi da quel catarro vischioso prodotto dallo stress. 
E poi, ancora si guardavano con negli occhi il velo dell’amore. 
Forse era un po’ rattoppato, logoro, ma pur sempre lì, a fungere da mantello per ripararsi l’un l’altro. 
La donna scese le scale di corsa, allarmata: “Tobia non c’è!”
“Non c’è?”
“Era in camera sua a fare i compiti. Non ci sono nemmeno più le sue scarpe!” 
Si guardarono, lei con le guance arrossate per la corsa, lui pallido, sbiancato dall’ angoscia.
Uscirono di casa, scordandosi di coprirsi.
Il freddo di dicembre li avvinghiò appena li ebbe fra le sue braccia.
Cominciarono a cercarlo dai vicini, nei negozi, nei bar. 
Fra le vie del paese agghindate con file di luci colorate e alberi di Natale, a recitare auguri con le scritte a intermittenza. 
Infine, udirono dei belati giungere dalla campagna, e le voci di alcuni uomini che chiedevano aiuto. 
I due coniugi di precipitarono verso quei suoni, davanti ai loro occhi si presentò una scena tremenda: le pecore erano discese tutte insieme da una collina che era franata sotto al loro peso, fra rovi e alberelli. 
Le bestie che erano scese per prime, stavano distese a terra, schiacciate dalle altre. 
I pastori tentavano di allontanare il resto del gregge, per impedirgli di finire anch’essi soffocati. 
Tobia corse loro incontro: “Mamma! Papà! Dobbiamo aiutarli!”
La madre lo afferrò per le spalle: “Io e te stiamo qui, è pericoloso”. 
Il padre si gettò fra le ressa di animali spaventati, sbattendo le mani e urlando, per far allontanare le altre pecore. 
Nonostante gli sforzi di tutte le persone accorse, e i pastori che provarono a rianimare le pecore praticando loro la respirazione bocca a bocca, per venti animali non ci fu nulla da fare. 
Tobia, stretto fra i genitori, rimase lì a guardare gli agnellini che richiamavano le loro madri defunte, distese in mezzo all’erba con le zampe levate in aria. 
La madre lo abbracciò stretto: “Vieni, torniamo a casa”.
“E adesso?”
Il padre si incamminò con loro, esausto, sporco. “Adesso ci penseranno i pastori. 
Ai piccoli rimasti orfani daranno loro il latte”. 
Entrarono in casa e il padre sedette con Tobia sul primo gradino della scala. “Tesoro, perché sei scappato?”
“Litigavate”.
Il bambino volse verso di lui due occhioni pieni di lacrime: “Litigate sempre! Io non voglio che divorziate”. 
La madre gli si inginocchiò accanto: “Tobia, papà e io ci vogliamo bene. Siamo un po’ nervosi, è vero, ma non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci”. 
“E di lasciare me?” pensò alle zampe di quelle povere bestie, coi piccoli zoccoli appuntiti a indicare un posto lontano del campo. 
“Ma cosa dici?” Suo padre gli accarezzò i capelli. “Non pensarlo nemmeno”.
“Io e papà siamo un po’ come quei pastori che hai conosciuto oggi: per la nostra famiglia faremmo di tutto. 
Hai visto come hanno tentato di salvare il loro gregge? Noi faremmo lo stesso per te. Tu sei il nostro agnellino!” 
Sua madre lo baciò sulla fronte. “Il più bell’agnellino che abbia mai visto!” 
Tobia rise fra le lacrime, tirando su col naso gli ultimi singhiozzi che ancora aveva in gola. “E tu e papà siete due pecore?” 
“Bhè…io un bell’ariete, e mamma una pecora con tanta lana!” 
Risero, abbracciandosi, ritrovandosi in quell’amara esperienza.
********* 
Il giorno dopo degli uomini caricarono su di un camion le carcasse degli animali morti, per portarli all’inceneritore. 
Il gregge, nonostante la tremenda sciagura, proseguì nel suo viaggio. 
Tobia, divenuto adulto, non scordò mai quelle povere bestie morte schiacciate e l’impegno messo dai pastori per salvarle. 
Divenne padre di famiglia e, un giorno, si ritrovò a raccontare questa storia ai suoi figli. 
“… i miei genitori mi consolarono facendo questo esempio, da allora, ho sempre pensato alla famiglia come a un gregge: unita”.



Pellizza da Volpedo


 Ciao da Tony Kospan




Barra21CAhomeiwao

POESIA E CULTURA NELLA PAGINA FB

Frecce (174)





Francesco Paolo Michetti – Ritorno all’ovile




Il gregge – Racconto bello ed elegante di Miriam Ballerini   1 comment



Non ricordo più dove trovai,

parecchio tempo fa, questo racconto.


L’autrice in seguito l’ho poi conosciuta un po’ (virtualmente)

frequentando il sito di un’amica.


,

Francesco Paolo Michetti – Pastorella con il suo gregge




Grande fu quindi la mia sorpresa nel leggere il suo nome
come autrice di questo bel racconto quando mi tornò tra le mani…
(ohibò… ma si può dir ancora così dato che oggi
grazie al web tutti i documenti sono virtuali?).



Jules Dupré



Si tratta di un racconto che unisce eleganza di prosa,
a realismo, emozione,  dolcezza…
e grande tensione verso una visione positiva della vita.

Vi consiglio di tutto cuore di leggerlo.
 


 
 
Henri Jean Guillaume Martin

.
.
.
.
IL GREGGE
Miriam Ballerini
 
 


Tobia subì l’ennesimo strepito di urla della madre. Nascosto, seduto in cima alle scale, sull’ultimo gradino di legno, quello che scricchiolava meno degli altri; assisteva a un nuovo litigio dei genitori. 
O, forse, era sempre lo stesso che veniva ripresentato in una nuova versione.
“Non ne posso più della tua gelosia!”, gridò suo padre. 
La sua voce salì per la scala a chiocciola, fino a scontrarsi coi suoi piedi imbacuccati in un paio di pantofole a forma di cane.
“E io sono stanca delle tue bugie!” 
Sua madre, se possibile, urlò più forte di prima. 
Il bambino provò a coprirsi le orecchie con le mani, stringendo forte gli occhi, sperando in un qualche rifugio interiore, dove rintanarsi. 
“Basta! Me ne vado!”
“No, caro! Non sei tu che te ne vai, sono io che ti caccio via!” 
Tobia scalciò l’aria nel tentativo di rialzarsi velocemente. 
Rinculò fino alla sua camera, dove indossò le scarpe da ginnastica e il giubbetto che da poco si era tolto, tornando da scuola. 
Dall’alto delle scale vide l’ombra di suo padre stagliata sul muro: un lungo braccio nero che si allungò per aprire la porta, poi, solo il rumore dei suoi passi sul vialetto e l’accendersi del motore dell’auto. 
Tobia discese qualche gradino; sua madre piangeva in cucina, sentiva i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di coprirne il suono lavando i piatti, sbattendoli fra loro nell’acqua saponata. 
Percorse il corridoio piano; delicatamente aprì la porta e la richiuse adagio. 
Aveva otto anni e il pensiero che gli si era presentato alla mente, era semplice e lineare: sottrarsi con la fuga ai litigi dei suoi genitori. 
Si sentiva svigorito, a furia di passare sempre più giornate ad ascoltare le loro urla, inerpicarsi sui gradini fino a raggiungerlo. 
Aveva paura, di un timore semplice che solo una parola sapeva racchiudere interamente: divorzio. 
A scuola sentiva i discorsi degli altri bambini, figli di divorziati: prima erano le urla, poi il silenzio della divisione. 
E loro, i bambini, rimanevano in quella terra di mezzo – una terra di nessuno – sbatacchiati ora da un genitore, ora dall’altro. 
E questo quando ti andava bene: a volte, venivi affidato a mamma e, papà, non si faceva più vivo. 
Senza accorgersene, Tobia camminò per le strade del paese, con le lacrime che a forza di pungergli gli occhi, avevano finito per trovare la loro via d’uscita. 
Si avviò verso la campagna, passando da un sentiero che a volte percorreva con papà, quando uscivano a raccogliere more; con i guanti per non pungersi le mani e i cestini di vimini che finivano per tingersi di blu. 
Superata una modesta altura, venne accolto dal latrare di alcuni cani e si ritrovò circondato da pecore, agnellini e un paio d’asini! 
Due pastori sedevano su dei massi, intenti a mangiarsi un panino, mentre custodivano il loro gregge. 
Quando i loro animali avessero ripulito a dovere quel campo, si sarebbero spostati in cerca di una nuova pastura. 
Tobia si soffermò ai margini di quell’insieme bianco sporco, belante, ad osservare gli agnellini che trotterellavano intorno alle zampe degli adulti. 
Trascorse così alcune ore, divertendosi ad accarezzare la lana sporca delle pecore e quella più candida dei loro cuccioli. 
I quali si avvicinavano giusto il tempo per farsi accarezzare il muso rosa, e poi scappare via. 
I suoi genitori, nel frattempo, si erano riconciliati, come sempre accadeva dopo le loro liti. 
Per il bene di Tobia, perché non c’erano davvero questi grandi motivi di contrasto. 
Erano la tensione, i malumori raccolti sul lavoro che andavano sfogati in qualche futile scontro; per liberarsi da quel catarro vischioso prodotto dallo stress. 
E poi, ancora si guardavano con negli occhi il velo dell’amore. 
Forse era un po’ rattoppato, logoro, ma pur sempre lì, a fungere da mantello per ripararsi l’un l’altro. 
La donna scese le scale di corsa, allarmata: “Tobia non c’è!”
“Non c’è?”
“Era in camera sua a fare i compiti. Non ci sono nemmeno più le sue scarpe!” 
Si guardarono, lei con le guance arrossate per la corsa, lui pallido, sbiancato dall’ angoscia.
Uscirono di casa, scordandosi di coprirsi.
Il freddo di dicembre li avvinghiò appena li ebbe fra le sue braccia.
Cominciarono a cercarlo dai vicini, nei negozi, nei bar. 
Fra le vie del paese agghindate con file di luci colorate e alberi di Natale, a recitare auguri con le scritte a intermittenza. 
Infine, udirono dei belati giungere dalla campagna, e le voci di alcuni uomini che chiedevano aiuto. 
I due coniugi di precipitarono verso quei suoni, davanti ai loro occhi si presentò una scena tremenda: le pecore erano discese tutte insieme da una collina che era franata sotto al loro peso, fra rovi e alberelli. 
Le bestie che erano scese per prime, stavano distese a terra, schiacciate dalle altre. 
I pastori tentavano di allontanare il resto del gregge, per impedirgli di finire anch’essi soffocati. 
Tobia corse loro incontro: “Mamma! Papà! Dobbiamo aiutarli!”
La madre lo afferrò per le spalle: “Io e te stiamo qui, è pericoloso”. 
Il padre si gettò fra le ressa di animali spaventati, sbattendo le mani e urlando, per far allontanare le altre pecore. 
Nonostante gli sforzi di tutte le persone accorse, e i pastori che provarono a rianimare le pecore praticando loro la respirazione bocca a bocca, per venti animali non ci fu nulla da fare. 
Tobia, stretto fra i genitori, rimase lì a guardare gli agnellini che richiamavano le loro madri defunte, distese in mezzo all’erba con le zampe levate in aria. 
La madre lo abbracciò stretto: “Vieni, torniamo a casa”.
“E adesso?”
Il padre si incamminò con loro, esausto, sporco. “Adesso ci penseranno i pastori. 
Ai piccoli rimasti orfani daranno loro il latte”. 
Entrarono in casa e il padre sedette con Tobia sul primo gradino della scala. “Tesoro, perché sei scappato?”
“Litigavate”.
Il bambino volse verso di lui due occhioni pieni di lacrime: “Litigate sempre! Io non voglio che divorziate”. 
La madre gli si inginocchiò accanto: “Tobia, papà e io ci vogliamo bene. Siamo un po’ nervosi, è vero, ma non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci”. 
“E di lasciare me?” pensò alle zampe di quelle povere bestie, coi piccoli zoccoli appuntiti a indicare un posto lontano del campo. 
“Ma cosa dici?” Suo padre gli accarezzò i capelli. “Non pensarlo nemmeno”.
“Io e papà siamo un po’ come quei pastori che hai conosciuto oggi: per la nostra famiglia faremmo di tutto. 
Hai visto come hanno tentato di salvare il loro gregge? Noi faremmo lo stesso per te. Tu sei il nostro agnellino!” 
Sua madre lo baciò sulla fronte. “Il più bell’agnellino che abbia mai visto!” 
Tobia rise fra le lacrime, tirando su col naso gli ultimi singhiozzi che ancora aveva in gola. “E tu e papà siete due pecore?” 
“Bhè…io un bell’ariete, e mamma una pecora con tanta lana!” 
Risero, abbracciandosi, ritrovandosi in quell’amara esperienza.
********* 
Il giorno dopo degli uomini caricarono su di un camion le carcasse degli animali morti, per portarli all’inceneritore. 
Il gregge, nonostante la tremenda sciagura, proseguì nel suo viaggio. 
Tobia, divenuto adulto, non scordò mai quelle povere bestie morte schiacciate e l’impegno messo dai pastori per salvarle. 
Divenne padre di famiglia e, un giorno, si ritrovò a raccontare questa storia ai suoi figli. 
“… i miei genitori mi consolarono facendo questo esempio, da allora, ho sempre pensato alla famiglia come a un gregge: unita”.



Pellizza da Volpedo


 Ciao da Tony Kospan




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POESIA E CULTURA NELLA PAGINA FB

Frecce (174)





Francesco Paolo Michetti – Ritorno all’ovile




Il gregge – Bel racconto di Miriam Ballerini…   Leave a comment

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Non ricordo più dove trovai,

parecchio tempo fa, questo racconto.


L’autrice l’ho poi conosciuta un po'… (virtualmente)

frequentando il sito di un'amica

,

,

Francesco Paolo Michetti – Guidando il gregge





Grande dunque fu la mia sorpresa nel leggere il suo nome
come autrice di questo bel racconto quando m’è tornato tra le mani…
(ohibò… ma si può dir ancora così dato che oggi nel web…
si parla in effetti di documenti virtuali?).

Si tratta di un racconto che unisce eleganza di prosa,
a realismo, emozione,  dolcezza…
e grande tensione verso una visione positiva della vita.

Vi consiglio di tutto cuore di leggerlo…
 

 


 
 
 Jean-Francois Millet – Pastorella con il suo gregge
.
.
.
.
IL GREGGE
Miriam Ballerini
 
 

Tobia subì l’ennesimo strepito di urla della madre. Nascosto, seduto in cima alle scale, sull’ultimo gradino di legno, quello che scricchiolava meno degli altri; assisteva a un nuovo litigio dei genitori. O, forse, era sempre lo stesso che veniva ripresentato in una nuova versione.
“Non ne posso più della tua gelosia!”, gridò suo padre.
La sua voce salì per la scala a chiocciola, fino a scontrarsi coi suoi piedi imbacuccati in un paio di pantofole a forma di cane.
“E io sono stanca delle tue bugie!” Sua madre, se possibile, urlò più forte di prima.
Il bambino provò a coprirsi le orecchie con le mani, stringendo forte gli occhi, sperando in un qualche rifugio interiore, dove rintanarsi.
“Basta! Me ne vado!”
“No, caro! Non sei tu che te ne vai, sono io che ti caccio via!”
Tobia scalciò l’aria nel tentativo di rialzarsi velocemente. Rinculò fino alla sua camera, dove indossò le scarpe da ginnastica e il giubbetto che da poco si era tolto, tornando da scuola.
Dall’alto delle scale vide l’ombra di suo padre stagliata sul muro: un lungo braccio nero che si allungò per aprire la porta, poi, solo il rumore dei suoi passi sul vialetto e l’accendersi del motore dell’auto.
Tobia discese qualche gradino; sua madre piangeva in cucina, sentiva i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di coprirne il suono lavando i piatti, sbattendoli fra loro nell’acqua saponata.
Percorse il corridoio piano; delicatamente aprì la porta e la richiuse adagio.
Aveva otto anni e il pensiero che gli si era presentato alla mente, era semplice e lineare: sottrarsi con la fuga ai litigi dei suoi genitori. Si sentiva svigorito, a furia di passare sempre più giornate ad ascoltare le loro urla, inerpicarsi sui gradini fino a raggiungerlo. Aveva paura, di un timore semplice che solo una parola sapeva racchiudere interamente: divorzio.
A scuola sentiva i discorsi degli altri bambini, figli di divorziati: prima erano le urla, poi il silenzio della divisione. E loro, i bambini, rimanevano in quella terra di mezzo – una terra di nessuno – sbatacchiati ora da un genitore, ora dall’altro. E questo quando ti andava bene: a volte, venivi affidato a mamma e, papà, non si faceva più vivo.
Senza accorgersene, Tobia camminò per le strade del paese, con le lacrime che a forza di pungergli gli occhi, avevano finito per trovare la loro via d’uscita.
Si avviò verso la campagna, passando da un sentiero che a volte percorreva con papà, quando uscivano a raccogliere more; con i guanti per non pungersi le mani e i cestini di vimini che finivano per tingersi di blu.
Superata una modesta altura, venne accolto dal latrare di alcuni cani e si ritrovò circondato da pecore, agnellini e un paio d’asini! Due pastori sedevano su dei massi, intenti a mangiarsi un panino, mentre custodivano il loro gregge. Quando i loro animali avessero ripulito a dovere quel campo, si sarebbero spostati in cerca di una nuova pastura.
Tobia si soffermò ai margini di quell’insieme bianco sporco, belante, ad osservare gli agnellini che trotterellavano intorno alle zampe degli adulti.
Trascorse così  alcune ore, divertendosi ad accarezzare la lana sporca delle pecore e quella più candida dei loro cuccioli. I quali si avvicinavano giusto il tempo per farsi accarezzare il muso rosa, e poi scappare via.
I suoi genitori, nel frattempo, si erano riconciliati, come sempre accadeva dopo le loro liti. Per il bene di Tobia, perché non c’erano davvero questi grandi motivi di contrasto. Erano la tensione, i malumori raccolti sul lavoro che andavano sfogati in qualche futile scontro; per liberarsi da quel catarro vischioso prodotto dallo stress. E poi, ancora si guardavano con negli occhi il velo dell’amore. Forse era un po’ rattoppato, logoro, ma pur sempre lì, a fungere da mantello per ripararsi l’un l’altro.
La donna scese le scale di corsa, allarmata: “Tobia non c’è!”
“Non c’è?”
“Era in camera sua a fare i compiti. Non ci sono nemmeno più le sue scarpe!”
Si guardarono, lei con le guance arrossate per la corsa, lui pallido, sbiancato dall’ angoscia.
Uscirono di casa, scordandosi di coprirsi.
Il freddo di dicembre li avvinghiò appena li ebbe fra le sue braccia.
Cominciarono a cercarlo dai vicini, nei negozi, nei bar. Fra le vie del paese agghindate con file di luci colorate e alberi di Natale, a recitare auguri con le scritte a intermittenza.
Infine, udirono dei belati giungere dalla campagna, e le voci di alcuni uomini che chiedevano aiuto. I due coniugi di precipitarono verso quei suoni, davanti ai loro occhi si presentò una scena tremenda: le pecore erano discese tutte insieme da una collina che era franata sotto al loro peso, fra rovi e alberelli. Le bestie che erano scese per prime, stavano distese a terra, schiacciate dalle altre. I pastori tentavano di allontanare il resto del gregge, per impedirgli di finire anch’essi soffocati.
Tobia corse loro incontro: “Mamma! Papà! Dobbiamo aiutarli!”
La madre lo afferrò per le spalle: “Io e te stiamo qui, è pericoloso”.
Il padre si gettò fra le ressa di animali spaventati, sbattendo le mani e urlando, per far allontanare le altre pecore.
Nonostante gli sforzi di tutte le persone accorse, e i pastori che provarono a rianimare le pecore praticando loro la respirazione bocca a bocca, per venti animali non ci fu nulla da fare.
Tobia, stretto fra i genitori, rimase lì a guardare gli agnellini che richiamavano le loro madri defunte, distese in mezzo all’erba con le zampe levate in aria.
La madre lo abbracciò stretto: “Vieni, torniamo a casa”.
“E adesso?”
Il padre si incamminò con loro, esausto, sporco. “Adesso ci penseranno i pastori. Ai piccoli rimasti orfani daranno loro il latte”.
Entrarono in casa e il padre sedette con Tobia sul primo gradino della scala. “Tesoro, perché sei scappato?”
“Litigavate”.
Il bambino volse verso di lui due occhioni pieni di lacrime: “Litigate sempre! Io non voglio che divorziate”.
La madre gli si inginocchiò accanto: “Tobia, papà e io ci vogliamo bene. Siamo un po’ nervosi, è vero, ma non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci”.
“E di lasciare me?” pensò alle zampe di quelle povere bestie, coi piccoli zoccoli appuntiti a indicare un posto lontano del campo.
“Ma cosa dici?” Suo padre gli accarezzò i capelli. “Non pensarlo nemmeno”.
“Io e papà siamo un po’ come quei pastori che hai conosciuto oggi: per la nostra famiglia faremmo di tutto. Hai visto come hanno tentato di salvare il loro gregge? Noi faremmo lo stesso per te. Tu sei il nostro agnellino!” Sua madre lo baciò sulla fronte. “Il più bell’agnellino che abbia mai visto!”
Tobia rise fra le lacrime, tirando su col naso gli ultimi singhiozzi che ancora aveva in gola. “E tu e papà siete due pecore?”
“Bhè…io un bell’ariete, e mamma una pecora con tanta lana!”
Risero, abbracciandosi, ritrovandosi in quell’amara esperienza.
*********
Il giorno dopo degli uomini caricarono su di un camion le carcasse degli animali morti, per portarli all’inceneritore.
Il gregge, nonostante la tremenda sciagura, proseguì nel suo viaggio.
Tobia, divenuto adulto, non scordò mai quelle povere bestie morte schiacciate e l’impegno messo dai pastori per salvarle.
Divenne padre di famiglia e, un giorno, si ritrovò a raccontare questa storia ai suoi figli.
“… i miei genitori mi consolarono facendo questo esempio, da allora, ho sempre pensato alla famiglia come a un gregge: unita”.





Francesco Paolo Michetti – Pastorella con il suo gregge


 
 
 


Ciao da Tony Kospan

 

 


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POESIE…
INSIEME ED IN AMICIZIA? 
 
FANTMONDOPOESIA.jpg picture by orsotony21

Una madre ed il suo ragazzo – Simpaticissimo raccontino morale   Leave a comment

 

Un bellissimo raccontino

che consiglio alle madri (ed ai padri)

di far leggere ai ragazzi di oggi…

 

 

 

 

 

 

MADRE E FIGLIO

– BEL RACCONTINO DI SAGGEZZA –

 

 

 

 

 

 

Una sera, mentre la mamma preparava la cena, il figlio undicenne si presentò in cucina con un foglietto in mano.
 
Con aria stranamente ufficiale il bambino porse il pezzo di carta alla mamma, che si asciugò le mani con il grembiule e lesse quanto vi era scritto:

.

.
Per aver strappato le erbacce dal vialetto: 1 EURO.


Per aver ordinato la mia cameretta: 1,50 EURO.

Per essere andato a comprare il latte: 0,50 EURO.

Per aver badato alla sorellina (tre pomeriggi): 3 EURO.

Per aver preso due volte “ottimo” a scuola: 2 EURO.

Per aver portato fuori l’ immondizia tutte le sere: 1 EURO.


Totale: 9 EURO

 

 

La mamma fissò il figlio negli occhi, teneramente.

La sua mente si affollò di ricordi.

Prese una biro e, sul retro del foglietto, scrisse:
 

 
Per averti portato in grembo per 9 mesi: 0 EURO.
Per tutte le notti passate a vegliarti quando eri ammalato: 0 EURO.
Per tutte le volte che ti ho cullato quando eri triste: 0 EURO.
Per tutte le volte che ho asciugato le tue lacrime: 0 EURO.
Per tutto quello che ti ho insegnato, giorno dopo giorno: 0 EURO.
Per tutte le colazioni, i pranzi, le merende, le cene e i panini che ti ho preparato: 0 EURO.
Per la vita che ti dò ogni giorno: 0 EURO.
 
 

Quando ebbe terminato, sorridendo la mamma diede il foglietto al figlio.

Quando il bambino ebbe finito di leggere ciò che la mamma aveva scritto, due LACRIMONI fecero capolino nei suoi occhi.

Girò il foglio e sul suo conto scrisse: “PAGATO”.

Poi saltò al collo della madre e la sommerse di baci.

Quando nei rapporti personali e familiari si cominciano a fare i conti, è tutto finito.

L’amore, o è gratuito o non è amore.

 

 

 

Madre e figlio – Picasso

 

 

dal web – impaginazione T. K.
 
 
 
 
CIAO DA TONY KOSPAN
 
 
 
 
 

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