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“Il gregge” – Racconto bello ed elegante di Miriam Ballerini (con dipinti.. pastorali)   Leave a comment



Non ricordo più dove trovai,

parecchio tempo fa, questo racconto.


L’autrice in seguito l’ho poi conosciuta un po’ (virtualmente)

frequentando il sito di un’amica.


,

Francesco Paolo Michetti – Pastorella con il suo gregge




Grande fu quindi la mia sorpresa nel leggere il suo nome
come autrice di questo bel racconto quando mi tornò tra le mani…
(ohibò… ma si può dir ancora così dato che oggi
grazie al web tutti i documenti sono virtuali?).



Jules Dupré



Si tratta di un racconto che unisce eleganza di prosa,
a realismo, emozione,  dolcezza…
e grande tensione verso una visione positiva della vita.

Vi consiglio di tutto cuore di leggerlo.
 


 
 
Henri Jean Guillaume Martin

.
.
.
.
IL GREGGE
Miriam Ballerini
 
 


Tobia subì l’ennesimo strepito di urla della madre. Nascosto, seduto in cima alle scale, sull’ultimo gradino di legno, quello che scricchiolava meno degli altri; assisteva a un nuovo litigio dei genitori. 
O, forse, era sempre lo stesso che veniva ripresentato in una nuova versione.
“Non ne posso più della tua gelosia!”, gridò suo padre. 
La sua voce salì per la scala a chiocciola, fino a scontrarsi coi suoi piedi imbacuccati in un paio di pantofole a forma di cane.
“E io sono stanca delle tue bugie!” 
Sua madre, se possibile, urlò più forte di prima. 
Il bambino provò a coprirsi le orecchie con le mani, stringendo forte gli occhi, sperando in un qualche rifugio interiore, dove rintanarsi. 
“Basta! Me ne vado!”
“No, caro! Non sei tu che te ne vai, sono io che ti caccio via!” 
Tobia scalciò l’aria nel tentativo di rialzarsi velocemente. 
Rinculò fino alla sua camera, dove indossò le scarpe da ginnastica e il giubbetto che da poco si era tolto, tornando da scuola. 
Dall’alto delle scale vide l’ombra di suo padre stagliata sul muro: un lungo braccio nero che si allungò per aprire la porta, poi, solo il rumore dei suoi passi sul vialetto e l’accendersi del motore dell’auto. 
Tobia discese qualche gradino; sua madre piangeva in cucina, sentiva i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di coprirne il suono lavando i piatti, sbattendoli fra loro nell’acqua saponata. 
Percorse il corridoio piano; delicatamente aprì la porta e la richiuse adagio. 
Aveva otto anni e il pensiero che gli si era presentato alla mente, era semplice e lineare: sottrarsi con la fuga ai litigi dei suoi genitori. 
Si sentiva svigorito, a furia di passare sempre più giornate ad ascoltare le loro urla, inerpicarsi sui gradini fino a raggiungerlo. 
Aveva paura, di un timore semplice che solo una parola sapeva racchiudere interamente: divorzio. 
A scuola sentiva i discorsi degli altri bambini, figli di divorziati: prima erano le urla, poi il silenzio della divisione. 
E loro, i bambini, rimanevano in quella terra di mezzo – una terra di nessuno – sbatacchiati ora da un genitore, ora dall’altro. 
E questo quando ti andava bene: a volte, venivi affidato a mamma e, papà, non si faceva più vivo. 
Senza accorgersene, Tobia camminò per le strade del paese, con le lacrime che a forza di pungergli gli occhi, avevano finito per trovare la loro via d’uscita. 
Si avviò verso la campagna, passando da un sentiero che a volte percorreva con papà, quando uscivano a raccogliere more; con i guanti per non pungersi le mani e i cestini di vimini che finivano per tingersi di blu. 
Superata una modesta altura, venne accolto dal latrare di alcuni cani e si ritrovò circondato da pecore, agnellini e un paio d’asini! 
Due pastori sedevano su dei massi, intenti a mangiarsi un panino, mentre custodivano il loro gregge. 
Quando i loro animali avessero ripulito a dovere quel campo, si sarebbero spostati in cerca di una nuova pastura. 
Tobia si soffermò ai margini di quell’insieme bianco sporco, belante, ad osservare gli agnellini che trotterellavano intorno alle zampe degli adulti. 
Trascorse così alcune ore, divertendosi ad accarezzare la lana sporca delle pecore e quella più candida dei loro cuccioli. 
I quali si avvicinavano giusto il tempo per farsi accarezzare il muso rosa, e poi scappare via. 
I suoi genitori, nel frattempo, si erano riconciliati, come sempre accadeva dopo le loro liti. 
Per il bene di Tobia, perché non c’erano davvero questi grandi motivi di contrasto. 
Erano la tensione, i malumori raccolti sul lavoro che andavano sfogati in qualche futile scontro; per liberarsi da quel catarro vischioso prodotto dallo stress. 
E poi, ancora si guardavano con negli occhi il velo dell’amore. 
Forse era un po’ rattoppato, logoro, ma pur sempre lì, a fungere da mantello per ripararsi l’un l’altro. 
La donna scese le scale di corsa, allarmata: “Tobia non c’è!”
“Non c’è?”
“Era in camera sua a fare i compiti. Non ci sono nemmeno più le sue scarpe!” 
Si guardarono, lei con le guance arrossate per la corsa, lui pallido, sbiancato dall’ angoscia.
Uscirono di casa, scordandosi di coprirsi.
Il freddo di dicembre li avvinghiò appena li ebbe fra le sue braccia.
Cominciarono a cercarlo dai vicini, nei negozi, nei bar. 
Fra le vie del paese agghindate con file di luci colorate e alberi di Natale, a recitare auguri con le scritte a intermittenza. 
Infine, udirono dei belati giungere dalla campagna, e le voci di alcuni uomini che chiedevano aiuto. 
I due coniugi di precipitarono verso quei suoni, davanti ai loro occhi si presentò una scena tremenda: le pecore erano discese tutte insieme da una collina che era franata sotto al loro peso, fra rovi e alberelli. 
Le bestie che erano scese per prime, stavano distese a terra, schiacciate dalle altre. 
I pastori tentavano di allontanare il resto del gregge, per impedirgli di finire anch’essi soffocati. 
Tobia corse loro incontro: “Mamma! Papà! Dobbiamo aiutarli!”
La madre lo afferrò per le spalle: “Io e te stiamo qui, è pericoloso”. 
Il padre si gettò fra le ressa di animali spaventati, sbattendo le mani e urlando, per far allontanare le altre pecore. 
Nonostante gli sforzi di tutte le persone accorse, e i pastori che provarono a rianimare le pecore praticando loro la respirazione bocca a bocca, per venti animali non ci fu nulla da fare. 
Tobia, stretto fra i genitori, rimase lì a guardare gli agnellini che richiamavano le loro madri defunte, distese in mezzo all’erba con le zampe levate in aria. 
La madre lo abbracciò stretto: “Vieni, torniamo a casa”.
“E adesso?”
Il padre si incamminò con loro, esausto, sporco. “Adesso ci penseranno i pastori. 
Ai piccoli rimasti orfani daranno loro il latte”. 
Entrarono in casa e il padre sedette con Tobia sul primo gradino della scala. “Tesoro, perché sei scappato?”
“Litigavate”.
Il bambino volse verso di lui due occhioni pieni di lacrime: “Litigate sempre! Io non voglio che divorziate”. 
La madre gli si inginocchiò accanto: “Tobia, papà e io ci vogliamo bene. Siamo un po’ nervosi, è vero, ma non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci”. 
“E di lasciare me?” pensò alle zampe di quelle povere bestie, coi piccoli zoccoli appuntiti a indicare un posto lontano del campo. 
“Ma cosa dici?” Suo padre gli accarezzò i capelli. “Non pensarlo nemmeno”.
“Io e papà siamo un po’ come quei pastori che hai conosciuto oggi: per la nostra famiglia faremmo di tutto. 
Hai visto come hanno tentato di salvare il loro gregge? Noi faremmo lo stesso per te. Tu sei il nostro agnellino!” 
Sua madre lo baciò sulla fronte. “Il più bell’agnellino che abbia mai visto!” 
Tobia rise fra le lacrime, tirando su col naso gli ultimi singhiozzi che ancora aveva in gola. “E tu e papà siete due pecore?” 
“Bhè…io un bell’ariete, e mamma una pecora con tanta lana!” 
Risero, abbracciandosi, ritrovandosi in quell’amara esperienza.
********* 
Il giorno dopo degli uomini caricarono su di un camion le carcasse degli animali morti, per portarli all’inceneritore. 
Il gregge, nonostante la tremenda sciagura, proseguì nel suo viaggio. 
Tobia, divenuto adulto, non scordò mai quelle povere bestie morte schiacciate e l’impegno messo dai pastori per salvarle. 
Divenne padre di famiglia e, un giorno, si ritrovò a raccontare questa storia ai suoi figli. 
“… i miei genitori mi consolarono facendo questo esempio, da allora, ho sempre pensato alla famiglia come a un gregge: unita”.



Pellizza da Volpedo


 Ciao da Tony Kospan




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Frecce (174)





Francesco Paolo Michetti – Ritorno all’ovile




“Il gregge” – Bello ed elegante questo racconto di Miriam Ballerini (con dipinti.. pastorali)   Leave a comment



Non ricordo più dove trovai,

parecchio tempo fa, questo racconto.


L’autrice in seguito l’ho poi conosciuta un po’ (virtualmente)

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,

Francesco Paolo Michetti – Pastorella con il suo gregge




Grande fu quindi la mia sorpresa nel leggere il suo nome
come autrice di questo bel racconto quando mi tornò tra le mani…
(ohibò… ma si può dir ancora così dato che oggi
grazie al web tutti i documenti sono virtuali?).



Jules Dupré



Si tratta di un racconto che unisce eleganza di prosa,
a realismo, emozione,  dolcezza…
e grande tensione verso una visione positiva della vita.

Vi consiglio di tutto cuore di leggerlo.
 


 
 
Henri Jean Guillaume Martin

.
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IL GREGGE
Miriam Ballerini
 
 


Tobia subì l’ennesimo strepito di urla della madre. Nascosto, seduto in cima alle scale, sull’ultimo gradino di legno, quello che scricchiolava meno degli altri; assisteva a un nuovo litigio dei genitori. 
O, forse, era sempre lo stesso che veniva ripresentato in una nuova versione.
“Non ne posso più della tua gelosia!”, gridò suo padre. 
La sua voce salì per la scala a chiocciola, fino a scontrarsi coi suoi piedi imbacuccati in un paio di pantofole a forma di cane.
“E io sono stanca delle tue bugie!” 
Sua madre, se possibile, urlò più forte di prima. 
Il bambino provò a coprirsi le orecchie con le mani, stringendo forte gli occhi, sperando in un qualche rifugio interiore, dove rintanarsi. 
“Basta! Me ne vado!”
“No, caro! Non sei tu che te ne vai, sono io che ti caccio via!” 
Tobia scalciò l’aria nel tentativo di rialzarsi velocemente. 
Rinculò fino alla sua camera, dove indossò le scarpe da ginnastica e il giubbetto che da poco si era tolto, tornando da scuola. 
Dall’alto delle scale vide l’ombra di suo padre stagliata sul muro: un lungo braccio nero che si allungò per aprire la porta, poi, solo il rumore dei suoi passi sul vialetto e l’accendersi del motore dell’auto. 
Tobia discese qualche gradino; sua madre piangeva in cucina, sentiva i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di coprirne il suono lavando i piatti, sbattendoli fra loro nell’acqua saponata. 
Percorse il corridoio piano; delicatamente aprì la porta e la richiuse adagio. 
Aveva otto anni e il pensiero che gli si era presentato alla mente, era semplice e lineare: sottrarsi con la fuga ai litigi dei suoi genitori. 
Si sentiva svigorito, a furia di passare sempre più giornate ad ascoltare le loro urla, inerpicarsi sui gradini fino a raggiungerlo. 
Aveva paura, di un timore semplice che solo una parola sapeva racchiudere interamente: divorzio. 
A scuola sentiva i discorsi degli altri bambini, figli di divorziati: prima erano le urla, poi il silenzio della divisione. 
E loro, i bambini, rimanevano in quella terra di mezzo – una terra di nessuno – sbatacchiati ora da un genitore, ora dall’altro. 
E questo quando ti andava bene: a volte, venivi affidato a mamma e, papà, non si faceva più vivo. 
Senza accorgersene, Tobia camminò per le strade del paese, con le lacrime che a forza di pungergli gli occhi, avevano finito per trovare la loro via d’uscita. 
Si avviò verso la campagna, passando da un sentiero che a volte percorreva con papà, quando uscivano a raccogliere more; con i guanti per non pungersi le mani e i cestini di vimini che finivano per tingersi di blu. 
Superata una modesta altura, venne accolto dal latrare di alcuni cani e si ritrovò circondato da pecore, agnellini e un paio d’asini! 
Due pastori sedevano su dei massi, intenti a mangiarsi un panino, mentre custodivano il loro gregge. 
Quando i loro animali avessero ripulito a dovere quel campo, si sarebbero spostati in cerca di una nuova pastura. 
Tobia si soffermò ai margini di quell’insieme bianco sporco, belante, ad osservare gli agnellini che trotterellavano intorno alle zampe degli adulti. 
Trascorse così alcune ore, divertendosi ad accarezzare la lana sporca delle pecore e quella più candida dei loro cuccioli. 
I quali si avvicinavano giusto il tempo per farsi accarezzare il muso rosa, e poi scappare via. 
I suoi genitori, nel frattempo, si erano riconciliati, come sempre accadeva dopo le loro liti. 
Per il bene di Tobia, perché non c’erano davvero questi grandi motivi di contrasto. 
Erano la tensione, i malumori raccolti sul lavoro che andavano sfogati in qualche futile scontro; per liberarsi da quel catarro vischioso prodotto dallo stress. 
E poi, ancora si guardavano con negli occhi il velo dell’amore. 
Forse era un po’ rattoppato, logoro, ma pur sempre lì, a fungere da mantello per ripararsi l’un l’altro. 
La donna scese le scale di corsa, allarmata: “Tobia non c’è!”
“Non c’è?”
“Era in camera sua a fare i compiti. Non ci sono nemmeno più le sue scarpe!” 
Si guardarono, lei con le guance arrossate per la corsa, lui pallido, sbiancato dall’ angoscia.
Uscirono di casa, scordandosi di coprirsi.
Il freddo di dicembre li avvinghiò appena li ebbe fra le sue braccia.
Cominciarono a cercarlo dai vicini, nei negozi, nei bar. 
Fra le vie del paese agghindate con file di luci colorate e alberi di Natale, a recitare auguri con le scritte a intermittenza. 
Infine, udirono dei belati giungere dalla campagna, e le voci di alcuni uomini che chiedevano aiuto. 
I due coniugi di precipitarono verso quei suoni, davanti ai loro occhi si presentò una scena tremenda: le pecore erano discese tutte insieme da una collina che era franata sotto al loro peso, fra rovi e alberelli. 
Le bestie che erano scese per prime, stavano distese a terra, schiacciate dalle altre. 
I pastori tentavano di allontanare il resto del gregge, per impedirgli di finire anch’essi soffocati. 
Tobia corse loro incontro: “Mamma! Papà! Dobbiamo aiutarli!”
La madre lo afferrò per le spalle: “Io e te stiamo qui, è pericoloso”. 
Il padre si gettò fra le ressa di animali spaventati, sbattendo le mani e urlando, per far allontanare le altre pecore. 
Nonostante gli sforzi di tutte le persone accorse, e i pastori che provarono a rianimare le pecore praticando loro la respirazione bocca a bocca, per venti animali non ci fu nulla da fare. 
Tobia, stretto fra i genitori, rimase lì a guardare gli agnellini che richiamavano le loro madri defunte, distese in mezzo all’erba con le zampe levate in aria. 
La madre lo abbracciò stretto: “Vieni, torniamo a casa”.
“E adesso?”
Il padre si incamminò con loro, esausto, sporco. “Adesso ci penseranno i pastori. 
Ai piccoli rimasti orfani daranno loro il latte”. 
Entrarono in casa e il padre sedette con Tobia sul primo gradino della scala. “Tesoro, perché sei scappato?”
“Litigavate”.
Il bambino volse verso di lui due occhioni pieni di lacrime: “Litigate sempre! Io non voglio che divorziate”. 
La madre gli si inginocchiò accanto: “Tobia, papà e io ci vogliamo bene. Siamo un po’ nervosi, è vero, ma non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci”. 
“E di lasciare me?” pensò alle zampe di quelle povere bestie, coi piccoli zoccoli appuntiti a indicare un posto lontano del campo. 
“Ma cosa dici?” Suo padre gli accarezzò i capelli. “Non pensarlo nemmeno”.
“Io e papà siamo un po’ come quei pastori che hai conosciuto oggi: per la nostra famiglia faremmo di tutto. 
Hai visto come hanno tentato di salvare il loro gregge? Noi faremmo lo stesso per te. Tu sei il nostro agnellino!” 
Sua madre lo baciò sulla fronte. “Il più bell’agnellino che abbia mai visto!” 
Tobia rise fra le lacrime, tirando su col naso gli ultimi singhiozzi che ancora aveva in gola. “E tu e papà siete due pecore?” 
“Bhè…io un bell’ariete, e mamma una pecora con tanta lana!” 
Risero, abbracciandosi, ritrovandosi in quell’amara esperienza.
********* 
Il giorno dopo degli uomini caricarono su di un camion le carcasse degli animali morti, per portarli all’inceneritore. 
Il gregge, nonostante la tremenda sciagura, proseguì nel suo viaggio. 
Tobia, divenuto adulto, non scordò mai quelle povere bestie morte schiacciate e l’impegno messo dai pastori per salvarle. 
Divenne padre di famiglia e, un giorno, si ritrovò a raccontare questa storia ai suoi figli. 
“… i miei genitori mi consolarono facendo questo esempio, da allora, ho sempre pensato alla famiglia come a un gregge: unita”.



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Francesco Paolo Michetti – Ritorno all’ovile




“I MORTICELLI” DIPINTO DI F. P. MICHETTI TRISTE MA SIGNIFICATIVO – Immagini.. breve analisi e la poesia di D’Annunzio   Leave a comment


L’arte non è solo bellezza… sogno… fantasia ma anche impietosa ed efficace rivelazione di realtà a volte amare di una società.

In tal modo essa ha un effetto di denuncia spesso superiore e più incisivo di altri mezzi oltre a rappresentare un momento storico.

Un dipinto bello, anche se triste, e molto particolare nella composizione è “I morticelli” del pittore e fotografo abruzzese Francesco Paolo Michetti appassionato cantore del mondo rurale e del folklore della sua regione.







Rappresenta la scena molto dolorosa di un funerale di un neonato sul mare.
.
Più che un dipinto sembra mostrare la storia dell’intero percorso di coloro che partecipano in varie forme all’evento ed è paragonabile ad una scena cinematografica.
.
Questa particolare impressione è evidenziata anche dalla forma del dipinto, rettangolare e lunga, che lo fa apparire come un fregio.







In verità non si vedono manifestazioni forti di dolore tranne quella del vecchio incurvato che regge il catafalco.
.
La dolorosa scena contrasta in modo evidente con i colori del mare, della natura, dei vestiti e dei volti dei personaggi.
.
Questo contrasto però ci dice che il pittore vuol donarci una visione dell’evento come di un fatto naturale benché amaro.







Ricordiamo che all’epoca, fine ‘800, la mortalità infantile in Italia era ancora molto, molto frequente.
.
Un altro aspetto infine risalta agli occhi.

Il dipinto, essendo molto lungo, ci mostra precise scene di gruppi di persone che possono essere viste anche come dipinti a sé stanti.







Il dipinto fu replicato quasi identico dall’autore 4 anni dopo (“Il morticino”).
.
L’amico D’annunzio, abruzzese come lui, colpito dal dipinto lo apprezzò a tal punto da dedicargli i versi che seguono:


“Stagna l’azzurra caldura (…)
Vien per la spiaggia lento il funereo
corteo seguendo croce e cadavere:
sol qualche risucchio di fiotto,
qualche singhiozzo di strozza umana
a tratti a tratti rompe il silenzio
greve (…)
Dietro la croce, dietro il cadavere,
con litanie lunghe, allontanasi,
va va va la pia carovana
sotto la tragica luce immensa.”

da Canto Novo, 1882







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SE AMI LA STORIA ED I RICORDI QUESTO E’ IL TUO GRUPPO DI FB
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Francesco Paolo Michetti – Autoritratto (Tocco da Casauria 4.8.1851 – Francavilla al Mare 5.3.1929)





“Il gregge” – Bello ed elegante davvero questo racconto di Miriam Ballerini (con dipinti.. pastorali)   Leave a comment



Non ricordo più dove trovai,

parecchio tempo fa, questo racconto.


L’autrice in seguito l’ho poi conosciuta un po’ (virtualmente)

frequentando il sito di un’amica.


,

Francesco Paolo Michetti – Pastorella con il suo gregge




Grande fu quindi la mia sorpresa nel leggere il suo nome
come autrice di questo bel racconto quando mi tornò tra le mani…
(ohibò… ma si può dir ancora così dato che oggi
grazie al web tutti i documenti sono virtuali?).



Jules Dupré



Si tratta di un racconto che unisce eleganza di prosa,
a realismo, emozione,  dolcezza…
e grande tensione verso una visione positiva della vita.

Vi consiglio di tutto cuore di leggerlo.
 


 
 
Henri Jean Guillaume Martin

.
.
.
.
IL GREGGE
Miriam Ballerini
 
 


Tobia subì l’ennesimo strepito di urla della madre. Nascosto, seduto in cima alle scale, sull’ultimo gradino di legno, quello che scricchiolava meno degli altri; assisteva a un nuovo litigio dei genitori. 
O, forse, era sempre lo stesso che veniva ripresentato in una nuova versione.
“Non ne posso più della tua gelosia!”, gridò suo padre. 
La sua voce salì per la scala a chiocciola, fino a scontrarsi coi suoi piedi imbacuccati in un paio di pantofole a forma di cane.
“E io sono stanca delle tue bugie!” 
Sua madre, se possibile, urlò più forte di prima. 
Il bambino provò a coprirsi le orecchie con le mani, stringendo forte gli occhi, sperando in un qualche rifugio interiore, dove rintanarsi. 
“Basta! Me ne vado!”
“No, caro! Non sei tu che te ne vai, sono io che ti caccio via!” 
Tobia scalciò l’aria nel tentativo di rialzarsi velocemente. 
Rinculò fino alla sua camera, dove indossò le scarpe da ginnastica e il giubbetto che da poco si era tolto, tornando da scuola. 
Dall’alto delle scale vide l’ombra di suo padre stagliata sul muro: un lungo braccio nero che si allungò per aprire la porta, poi, solo il rumore dei suoi passi sul vialetto e l’accendersi del motore dell’auto. 
Tobia discese qualche gradino; sua madre piangeva in cucina, sentiva i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di coprirne il suono lavando i piatti, sbattendoli fra loro nell’acqua saponata. 
Percorse il corridoio piano; delicatamente aprì la porta e la richiuse adagio. 
Aveva otto anni e il pensiero che gli si era presentato alla mente, era semplice e lineare: sottrarsi con la fuga ai litigi dei suoi genitori. 
Si sentiva svigorito, a furia di passare sempre più giornate ad ascoltare le loro urla, inerpicarsi sui gradini fino a raggiungerlo. 
Aveva paura, di un timore semplice che solo una parola sapeva racchiudere interamente: divorzio. 
A scuola sentiva i discorsi degli altri bambini, figli di divorziati: prima erano le urla, poi il silenzio della divisione. 
E loro, i bambini, rimanevano in quella terra di mezzo – una terra di nessuno – sbatacchiati ora da un genitore, ora dall’altro. 
E questo quando ti andava bene: a volte, venivi affidato a mamma e, papà, non si faceva più vivo. 
Senza accorgersene, Tobia camminò per le strade del paese, con le lacrime che a forza di pungergli gli occhi, avevano finito per trovare la loro via d’uscita. 
Si avviò verso la campagna, passando da un sentiero che a volte percorreva con papà, quando uscivano a raccogliere more; con i guanti per non pungersi le mani e i cestini di vimini che finivano per tingersi di blu. 
Superata una modesta altura, venne accolto dal latrare di alcuni cani e si ritrovò circondato da pecore, agnellini e un paio d’asini! 
Due pastori sedevano su dei massi, intenti a mangiarsi un panino, mentre custodivano il loro gregge. 
Quando i loro animali avessero ripulito a dovere quel campo, si sarebbero spostati in cerca di una nuova pastura. 
Tobia si soffermò ai margini di quell’insieme bianco sporco, belante, ad osservare gli agnellini che trotterellavano intorno alle zampe degli adulti. 
Trascorse così alcune ore, divertendosi ad accarezzare la lana sporca delle pecore e quella più candida dei loro cuccioli. 
I quali si avvicinavano giusto il tempo per farsi accarezzare il muso rosa, e poi scappare via. 
I suoi genitori, nel frattempo, si erano riconciliati, come sempre accadeva dopo le loro liti. 
Per il bene di Tobia, perché non c’erano davvero questi grandi motivi di contrasto. 
Erano la tensione, i malumori raccolti sul lavoro che andavano sfogati in qualche futile scontro; per liberarsi da quel catarro vischioso prodotto dallo stress. 
E poi, ancora si guardavano con negli occhi il velo dell’amore. 
Forse era un po’ rattoppato, logoro, ma pur sempre lì, a fungere da mantello per ripararsi l’un l’altro. 
La donna scese le scale di corsa, allarmata: “Tobia non c’è!”
“Non c’è?”
“Era in camera sua a fare i compiti. Non ci sono nemmeno più le sue scarpe!” 
Si guardarono, lei con le guance arrossate per la corsa, lui pallido, sbiancato dall’ angoscia.
Uscirono di casa, scordandosi di coprirsi.
Il freddo di dicembre li avvinghiò appena li ebbe fra le sue braccia.
Cominciarono a cercarlo dai vicini, nei negozi, nei bar. 
Fra le vie del paese agghindate con file di luci colorate e alberi di Natale, a recitare auguri con le scritte a intermittenza. 
Infine, udirono dei belati giungere dalla campagna, e le voci di alcuni uomini che chiedevano aiuto. 
I due coniugi di precipitarono verso quei suoni, davanti ai loro occhi si presentò una scena tremenda: le pecore erano discese tutte insieme da una collina che era franata sotto al loro peso, fra rovi e alberelli. 
Le bestie che erano scese per prime, stavano distese a terra, schiacciate dalle altre. 
I pastori tentavano di allontanare il resto del gregge, per impedirgli di finire anch’essi soffocati. 
Tobia corse loro incontro: “Mamma! Papà! Dobbiamo aiutarli!”
La madre lo afferrò per le spalle: “Io e te stiamo qui, è pericoloso”. 
Il padre si gettò fra le ressa di animali spaventati, sbattendo le mani e urlando, per far allontanare le altre pecore. 
Nonostante gli sforzi di tutte le persone accorse, e i pastori che provarono a rianimare le pecore praticando loro la respirazione bocca a bocca, per venti animali non ci fu nulla da fare. 
Tobia, stretto fra i genitori, rimase lì a guardare gli agnellini che richiamavano le loro madri defunte, distese in mezzo all’erba con le zampe levate in aria. 
La madre lo abbracciò stretto: “Vieni, torniamo a casa”.
“E adesso?”
Il padre si incamminò con loro, esausto, sporco. “Adesso ci penseranno i pastori. 
Ai piccoli rimasti orfani daranno loro il latte”. 
Entrarono in casa e il padre sedette con Tobia sul primo gradino della scala. “Tesoro, perché sei scappato?”
“Litigavate”.
Il bambino volse verso di lui due occhioni pieni di lacrime: “Litigate sempre! Io non voglio che divorziate”. 
La madre gli si inginocchiò accanto: “Tobia, papà e io ci vogliamo bene. Siamo un po’ nervosi, è vero, ma non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci”. 
“E di lasciare me?” pensò alle zampe di quelle povere bestie, coi piccoli zoccoli appuntiti a indicare un posto lontano del campo. 
“Ma cosa dici?” Suo padre gli accarezzò i capelli. “Non pensarlo nemmeno”.
“Io e papà siamo un po’ come quei pastori che hai conosciuto oggi: per la nostra famiglia faremmo di tutto. 
Hai visto come hanno tentato di salvare il loro gregge? Noi faremmo lo stesso per te. Tu sei il nostro agnellino!” 
Sua madre lo baciò sulla fronte. “Il più bell’agnellino che abbia mai visto!” 
Tobia rise fra le lacrime, tirando su col naso gli ultimi singhiozzi che ancora aveva in gola. “E tu e papà siete due pecore?” 
“Bhè…io un bell’ariete, e mamma una pecora con tanta lana!” 
Risero, abbracciandosi, ritrovandosi in quell’amara esperienza.
********* 
Il giorno dopo degli uomini caricarono su di un camion le carcasse degli animali morti, per portarli all’inceneritore. 
Il gregge, nonostante la tremenda sciagura, proseguì nel suo viaggio. 
Tobia, divenuto adulto, non scordò mai quelle povere bestie morte schiacciate e l’impegno messo dai pastori per salvarle. 
Divenne padre di famiglia e, un giorno, si ritrovò a raccontare questa storia ai suoi figli. 
“… i miei genitori mi consolarono facendo questo esempio, da allora, ho sempre pensato alla famiglia come a un gregge: unita”.



Pellizza da Volpedo


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UN MODO DIVERSO DI VIVER


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parecchio tempo fa, questo racconto.


L’autrice in seguito l’ho poi conosciuta un po' (virtualmente)

frequentando il sito di un'amica


,

,

Francesco Paolo Michetti – Ritorno all'ovile




Grande fu quindi la mia sorpresa nel leggere il suo nome
come autrice di questo bel racconto quando mi tornò tra le mani…
(ohibò… ma si può dir ancora così dato che oggi
grazie al web tutti i documenti sono virtuali?).



Jules Dupré



Si tratta di un racconto che unisce eleganza di prosa,
a realismo, emozione,  dolcezza…
e grande tensione verso una visione positiva della vita.

Vi consiglio di tutto cuore di leggerlo.
 


 
 
Henri Jean Guillaume Martin

.
.
.
.
IL GREGGE
Miriam Ballerini
 
 


Tobia subì l’ennesimo strepito di urla della madre. Nascosto, seduto in cima alle scale, sull’ultimo gradino di legno, quello che scricchiolava meno degli altri; assisteva a un nuovo litigio dei genitori. O, forse, era sempre lo stesso che veniva ripresentato in una nuova versione.
“Non ne posso più della tua gelosia!”, gridò suo padre.
La sua voce salì per la scala a chiocciola, fino a scontrarsi coi suoi piedi imbacuccati in un paio di pantofole a forma di cane.
“E io sono stanca delle tue bugie!” 
Sua madre, se possibile, urlò più forte di prima.
Il bambino provò a coprirsi le orecchie con le mani, stringendo forte gli occhi, sperando in un qualche rifugio interiore, dove rintanarsi.
“Basta! Me ne vado!”
“No, caro! Non sei tu che te ne vai, sono io che ti caccio via!”
Tobia scalciò l’aria nel tentativo di rialzarsi velocemente. 
Rinculò fino alla sua camera, dove indossò le scarpe da ginnastica e il giubbetto che da poco si era tolto, tornando da scuola.
Dall’alto delle scale vide l’ombra di suo padre stagliata sul muro: un lungo braccio nero che si allungò per aprire la porta, poi, solo il rumore dei suoi passi sul vialetto e l’accendersi del motore dell’auto.
Tobia discese qualche gradino; sua madre piangeva in cucina, sentiva i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di coprirne il suono lavando i piatti, sbattendoli fra loro nell’acqua saponata.
Percorse il corridoio piano; delicatamente aprì la porta e la richiuse adagio.
Aveva otto anni e il pensiero che gli si era presentato alla mente, era semplice e lineare: sottrarsi con la fuga ai litigi dei suoi genitori. 
Si sentiva svigorito, a furia di passare sempre più giornate ad ascoltare le loro urla, inerpicarsi sui gradini fino a raggiungerlo. 
Aveva paura, di un timore semplice che solo una parola sapeva racchiudere interamente: divorzio.
A scuola sentiva i discorsi degli altri bambini, figli di divorziati: prima erano le urla, poi il silenzio della divisione. 
E loro, i bambini, rimanevano in quella terra di mezzo – una terra di nessuno – sbatacchiati ora da un genitore, ora dall’altro. 
E questo quando ti andava bene: a volte, venivi affidato a mamma e, papà, non si faceva più vivo.
Senza accorgersene, Tobia camminò per le strade del paese, con le lacrime che a forza di pungergli gli occhi, avevano finito per trovare la loro via d’uscita.
Si avviò verso la campagna, passando da un sentiero che a volte percorreva con papà, quando uscivano a raccogliere more; con i guanti per non pungersi le mani e i cestini di vimini che finivano per tingersi di blu.
Superata una modesta altura, venne accolto dal latrare di alcuni cani e si ritrovò circondato da pecore, agnellini e un paio d’asini! 
Due pastori sedevano su dei massi, intenti a mangiarsi un panino, mentre custodivano il loro gregge. 
Quando i loro animali avessero ripulito a dovere quel campo, si sarebbero spostati in cerca di una nuova pastura.
Tobia si soffermò ai margini di quell’insieme bianco sporco, belante, ad osservare gli agnellini che trotterellavano intorno alle zampe degli adulti.
Trascorse così  alcune ore, divertendosi ad accarezzare la lana sporca delle pecore e quella più candida dei loro cuccioli. 
I quali si avvicinavano giusto il tempo per farsi accarezzare il muso rosa, e poi scappare via.
I suoi genitori, nel frattempo, si erano riconciliati, come sempre accadeva dopo le loro liti. 
Per il bene di Tobia, perché non c’erano davvero questi grandi motivi di contrasto. 
Erano la tensione, i malumori raccolti sul lavoro che andavano sfogati in qualche futile scontro; per liberarsi da quel catarro vischioso prodotto dallo stress. 
E poi, ancora si guardavano con negli occhi il velo dell’amore. 
Forse era un po’ rattoppato, logoro, ma pur sempre lì, a fungere da mantello per ripararsi l’un l’altro.
La donna scese le scale di corsa, allarmata: “Tobia non c’è!”
“Non c’è?”
“Era in camera sua a fare i compiti. Non ci sono nemmeno più le sue scarpe!”
Si guardarono, lei con le guance arrossate per la corsa, lui pallido, sbiancato dall’ angoscia.
Uscirono di casa, scordandosi di coprirsi.
Il freddo di dicembre li avvinghiò appena li ebbe fra le sue braccia.
Cominciarono a cercarlo dai vicini, nei negozi, nei bar. 
Fra le vie del paese agghindate con file di luci colorate e alberi di Natale, a recitare auguri con le scritte a intermittenza.
Infine, udirono dei belati giungere dalla campagna, e le voci di alcuni uomini che chiedevano aiuto. 
I due coniugi di precipitarono verso quei suoni, davanti ai loro occhi si presentò una scena tremenda: le pecore erano discese tutte insieme da una collina che era franata sotto al loro peso, fra rovi e alberelli. 
Le bestie che erano scese per prime, stavano distese a terra, schiacciate dalle altre. 
I pastori tentavano di allontanare il resto del gregge, per impedirgli di finire anch’essi soffocati.
Tobia corse loro incontro: “Mamma! Papà! Dobbiamo aiutarli!”
La madre lo afferrò per le spalle: “Io e te stiamo qui, è pericoloso”.
Il padre si gettò fra le ressa di animali spaventati, sbattendo le mani e urlando, per far allontanare le altre pecore.
Nonostante gli sforzi di tutte le persone accorse, e i pastori che provarono a rianimare le pecore praticando loro la respirazione bocca a bocca, per venti animali non ci fu nulla da fare.
Tobia, stretto fra i genitori, rimase lì a guardare gli agnellini che richiamavano le loro madri defunte, distese in mezzo all’erba con le zampe levate in aria.
La madre lo abbracciò stretto: “Vieni, torniamo a casa”.
“E adesso?”
Il padre si incamminò con loro, esausto, sporco. “Adesso ci penseranno i pastori. 
Ai piccoli rimasti orfani daranno loro il latte”.
Entrarono in casa e il padre sedette con Tobia sul primo gradino della scala. “Tesoro, perché sei scappato?”
“Litigavate”.
Il bambino volse verso di lui due occhioni pieni di lacrime: “Litigate sempre! Io non voglio che divorziate”.
La madre gli si inginocchiò accanto: “Tobia, papà e io ci vogliamo bene. Siamo un po’ nervosi, è vero, ma non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci”.
“E di lasciare me?” pensò alle zampe di quelle povere bestie, coi piccoli zoccoli appuntiti a indicare un posto lontano del campo.
“Ma cosa dici?” Suo padre gli accarezzò i capelli. “Non pensarlo nemmeno”.
“Io e papà siamo un po’ come quei pastori che hai conosciuto oggi: per la nostra famiglia faremmo di tutto. Hai visto come hanno tentato di salvare il loro gregge? Noi faremmo lo stesso per te. Tu sei il nostro agnellino!” Sua madre lo baciò sulla fronte. “Il più bell’agnellino che abbia mai visto!”
Tobia rise fra le lacrime, tirando su col naso gli ultimi singhiozzi che ancora aveva in gola. “E tu e papà siete due pecore?”
“Bhè…io un bell’ariete, e mamma una pecora con tanta lana!”
Risero, abbracciandosi, ritrovandosi in quell’amara esperienza.
*********
Il giorno dopo degli uomini caricarono su di un camion le carcasse degli animali morti, per portarli all’inceneritore.
Il gregge, nonostante la tremenda sciagura, proseguì nel suo viaggio.
Tobia, divenuto adulto, non scordò mai quelle povere bestie morte schiacciate e l’impegno messo dai pastori per salvarle.
Divenne padre di famiglia e, un giorno, si ritrovò a raccontare questa storia ai suoi figli.
“… i miei genitori mi consolarono facendo questo esempio, da allora, ho sempre pensato alla famiglia come a un gregge: unita”.



Pellizza da Volpedo

 Ciao da Tony Kospan




UN MODO DIVERSO DI VIVER


LA POESIA E LA CULTURA


NELLA PAGINA FB





Francesco Paolo Michetti – Pastorella con il suo gregge




I MORTICELLI – Dipinto di F. P. Michetti triste ma interessante – Immagini.. breve analisi e la poesia di D’Annunzio   3 comments


L’arte non è solo bellezza… sogno… fantasia ma anche impietosa ed efficace rivelazione di realtà a volte amare di una società.

In tal modo essa ha un effetto di denuncia spesso superiore e più incisivo di altri mezzi oltre a rappresentare un momento storico.

Un dipinto bello, anche se triste, e molto particolare nella composizione è “I morticelli” del pittore e fotografo abruzzese Francesco Paolo Michetti appassionato cantore del mondo rurale e del folklore della sua regione.







Rappresenta la scena molto dolorosa di un funerale di un neonato sul mare.
.
Più che un dipinto sembra mostrare la storia dell’intero percorso di coloro che partecipano in varie forme all’evento ed è paragonabile ad una scena cinematografica.
.
Questa particolare impressione è evidenziata anche dalla forma del dipinto, rettangolare e lunga, che lo fa apparire come un fregio.







In verità non si vedono manifestazioni forti di dolore tranne quella del vecchio incurvato che regge il catafalco.
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La dolorosa scena contrasta in modo evidente con i colori del mare, della natura, dei vestiti e dei volti dei personaggi.
.
Questo contrasto però ci dice che il pittore vuol donarci una visione dell’evento come di un fatto naturale benché amaro.







Ricordiamo che all’epoca, fine ‘800, la mortalità infantile in Italia era ancora molto, molto frequente.
.
Un altro aspetto infine risalta agli occhi.

Il dipinto, essendo molto lungo, ci mostra precise scene di gruppi di persone che possono essere viste anche come dipinti a sé stanti.







Il dipinto fu replicato quasi identico dall’autore 4 anni dopo (“Il morticino”).
.
L’amico D’annunzio, abruzzese come lui, colpito dal dipinto lo apprezzò a tal punto da dedicargli i versi che seguono:


“Stagna l’azzurra caldura (…)
Vien per la spiaggia lento il funereo
corteo seguendo croce e cadavere:
sol qualche risucchio di fiotto,
qualche singhiozzo di strozza umana
a tratti a tratti rompe il silenzio
greve (…)
Dietro la croce, dietro il cadavere,
con litanie lunghe, allontanasi,
va va va la pia carovana
sotto la tragica luce immensa.”

da Canto Novo, 1882







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SE AMI LA STORIA ED I RICORDI QUESTO E’ IL TUO GRUPPO DI FB
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Francesco Paolo Michetti – Autoritratto (Tocco da Casauria 4.8.1851 – Francavilla al Mare 5.3.1929)





Il gregge – Racconto davvero bello ed elegante di Miriam Ballerini   2 comments



Non ricordo più dove trovai,

parecchio tempo fa, questo racconto.


L’autrice in seguito l’ho poi conosciuta un po’ (virtualmente)

frequentando il sito di un’amica.


,

Francesco Paolo Michetti – Pastorella con il suo gregge




Grande fu quindi la mia sorpresa nel leggere il suo nome
come autrice di questo bel racconto quando mi tornò tra le mani…
(ohibò… ma si può dir ancora così dato che oggi
grazie al web tutti i documenti sono virtuali?).



Jules Dupré



Si tratta di un racconto che unisce eleganza di prosa,
a realismo, emozione,  dolcezza…
e grande tensione verso una visione positiva della vita.

Vi consiglio di tutto cuore di leggerlo.
 


 
 
Henri Jean Guillaume Martin

.
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IL GREGGE
Miriam Ballerini
 
 


Tobia subì l’ennesimo strepito di urla della madre. Nascosto, seduto in cima alle scale, sull’ultimo gradino di legno, quello che scricchiolava meno degli altri; assisteva a un nuovo litigio dei genitori. 
O, forse, era sempre lo stesso che veniva ripresentato in una nuova versione.
“Non ne posso più della tua gelosia!”, gridò suo padre. 
La sua voce salì per la scala a chiocciola, fino a scontrarsi coi suoi piedi imbacuccati in un paio di pantofole a forma di cane.
“E io sono stanca delle tue bugie!” 
Sua madre, se possibile, urlò più forte di prima. 
Il bambino provò a coprirsi le orecchie con le mani, stringendo forte gli occhi, sperando in un qualche rifugio interiore, dove rintanarsi. 
“Basta! Me ne vado!”
“No, caro! Non sei tu che te ne vai, sono io che ti caccio via!” 
Tobia scalciò l’aria nel tentativo di rialzarsi velocemente. 
Rinculò fino alla sua camera, dove indossò le scarpe da ginnastica e il giubbetto che da poco si era tolto, tornando da scuola. 
Dall’alto delle scale vide l’ombra di suo padre stagliata sul muro: un lungo braccio nero che si allungò per aprire la porta, poi, solo il rumore dei suoi passi sul vialetto e l’accendersi del motore dell’auto. 
Tobia discese qualche gradino; sua madre piangeva in cucina, sentiva i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di coprirne il suono lavando i piatti, sbattendoli fra loro nell’acqua saponata. 
Percorse il corridoio piano; delicatamente aprì la porta e la richiuse adagio. 
Aveva otto anni e il pensiero che gli si era presentato alla mente, era semplice e lineare: sottrarsi con la fuga ai litigi dei suoi genitori. 
Si sentiva svigorito, a furia di passare sempre più giornate ad ascoltare le loro urla, inerpicarsi sui gradini fino a raggiungerlo. 
Aveva paura, di un timore semplice che solo una parola sapeva racchiudere interamente: divorzio. 
A scuola sentiva i discorsi degli altri bambini, figli di divorziati: prima erano le urla, poi il silenzio della divisione. 
E loro, i bambini, rimanevano in quella terra di mezzo – una terra di nessuno – sbatacchiati ora da un genitore, ora dall’altro. 
E questo quando ti andava bene: a volte, venivi affidato a mamma e, papà, non si faceva più vivo. 
Senza accorgersene, Tobia camminò per le strade del paese, con le lacrime che a forza di pungergli gli occhi, avevano finito per trovare la loro via d’uscita. 
Si avviò verso la campagna, passando da un sentiero che a volte percorreva con papà, quando uscivano a raccogliere more; con i guanti per non pungersi le mani e i cestini di vimini che finivano per tingersi di blu. 
Superata una modesta altura, venne accolto dal latrare di alcuni cani e si ritrovò circondato da pecore, agnellini e un paio d’asini! 
Due pastori sedevano su dei massi, intenti a mangiarsi un panino, mentre custodivano il loro gregge. 
Quando i loro animali avessero ripulito a dovere quel campo, si sarebbero spostati in cerca di una nuova pastura. 
Tobia si soffermò ai margini di quell’insieme bianco sporco, belante, ad osservare gli agnellini che trotterellavano intorno alle zampe degli adulti. 
Trascorse così alcune ore, divertendosi ad accarezzare la lana sporca delle pecore e quella più candida dei loro cuccioli. 
I quali si avvicinavano giusto il tempo per farsi accarezzare il muso rosa, e poi scappare via. 
I suoi genitori, nel frattempo, si erano riconciliati, come sempre accadeva dopo le loro liti. 
Per il bene di Tobia, perché non c’erano davvero questi grandi motivi di contrasto. 
Erano la tensione, i malumori raccolti sul lavoro che andavano sfogati in qualche futile scontro; per liberarsi da quel catarro vischioso prodotto dallo stress. 
E poi, ancora si guardavano con negli occhi il velo dell’amore. 
Forse era un po’ rattoppato, logoro, ma pur sempre lì, a fungere da mantello per ripararsi l’un l’altro. 
La donna scese le scale di corsa, allarmata: “Tobia non c’è!”
“Non c’è?”
“Era in camera sua a fare i compiti. Non ci sono nemmeno più le sue scarpe!” 
Si guardarono, lei con le guance arrossate per la corsa, lui pallido, sbiancato dall’ angoscia.
Uscirono di casa, scordandosi di coprirsi.
Il freddo di dicembre li avvinghiò appena li ebbe fra le sue braccia.
Cominciarono a cercarlo dai vicini, nei negozi, nei bar. 
Fra le vie del paese agghindate con file di luci colorate e alberi di Natale, a recitare auguri con le scritte a intermittenza. 
Infine, udirono dei belati giungere dalla campagna, e le voci di alcuni uomini che chiedevano aiuto. 
I due coniugi di precipitarono verso quei suoni, davanti ai loro occhi si presentò una scena tremenda: le pecore erano discese tutte insieme da una collina che era franata sotto al loro peso, fra rovi e alberelli. 
Le bestie che erano scese per prime, stavano distese a terra, schiacciate dalle altre. 
I pastori tentavano di allontanare il resto del gregge, per impedirgli di finire anch’essi soffocati. 
Tobia corse loro incontro: “Mamma! Papà! Dobbiamo aiutarli!”
La madre lo afferrò per le spalle: “Io e te stiamo qui, è pericoloso”. 
Il padre si gettò fra le ressa di animali spaventati, sbattendo le mani e urlando, per far allontanare le altre pecore. 
Nonostante gli sforzi di tutte le persone accorse, e i pastori che provarono a rianimare le pecore praticando loro la respirazione bocca a bocca, per venti animali non ci fu nulla da fare. 
Tobia, stretto fra i genitori, rimase lì a guardare gli agnellini che richiamavano le loro madri defunte, distese in mezzo all’erba con le zampe levate in aria. 
La madre lo abbracciò stretto: “Vieni, torniamo a casa”.
“E adesso?”
Il padre si incamminò con loro, esausto, sporco. “Adesso ci penseranno i pastori. 
Ai piccoli rimasti orfani daranno loro il latte”. 
Entrarono in casa e il padre sedette con Tobia sul primo gradino della scala. “Tesoro, perché sei scappato?”
“Litigavate”.
Il bambino volse verso di lui due occhioni pieni di lacrime: “Litigate sempre! Io non voglio che divorziate”. 
La madre gli si inginocchiò accanto: “Tobia, papà e io ci vogliamo bene. Siamo un po’ nervosi, è vero, ma non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci”. 
“E di lasciare me?” pensò alle zampe di quelle povere bestie, coi piccoli zoccoli appuntiti a indicare un posto lontano del campo. 
“Ma cosa dici?” Suo padre gli accarezzò i capelli. “Non pensarlo nemmeno”.
“Io e papà siamo un po’ come quei pastori che hai conosciuto oggi: per la nostra famiglia faremmo di tutto. 
Hai visto come hanno tentato di salvare il loro gregge? Noi faremmo lo stesso per te. Tu sei il nostro agnellino!” 
Sua madre lo baciò sulla fronte. “Il più bell’agnellino che abbia mai visto!” 
Tobia rise fra le lacrime, tirando su col naso gli ultimi singhiozzi che ancora aveva in gola. “E tu e papà siete due pecore?” 
“Bhè…io un bell’ariete, e mamma una pecora con tanta lana!” 
Risero, abbracciandosi, ritrovandosi in quell’amara esperienza.
********* 
Il giorno dopo degli uomini caricarono su di un camion le carcasse degli animali morti, per portarli all’inceneritore. 
Il gregge, nonostante la tremenda sciagura, proseguì nel suo viaggio. 
Tobia, divenuto adulto, non scordò mai quelle povere bestie morte schiacciate e l’impegno messo dai pastori per salvarle. 
Divenne padre di famiglia e, un giorno, si ritrovò a raccontare questa storia ai suoi figli. 
“… i miei genitori mi consolarono facendo questo esempio, da allora, ho sempre pensato alla famiglia come a un gregge: unita”.



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Non ricordo più dove trovai,

parecchio tempo fa, questo racconto.


L’autrice in seguito l’ho poi conosciuta un po’ (virtualmente)

frequentando il sito di un’amica.


,

Francesco Paolo Michetti – Pastorella con il suo gregge




Grande fu quindi la mia sorpresa nel leggere il suo nome
come autrice di questo bel racconto quando mi tornò tra le mani…
(ohibò… ma si può dir ancora così dato che oggi
grazie al web tutti i documenti sono virtuali?).



Jules Dupré



Si tratta di un racconto che unisce eleganza di prosa,
a realismo, emozione,  dolcezza…
e grande tensione verso una visione positiva della vita.

Vi consiglio di tutto cuore di leggerlo.
 


 
 
Henri Jean Guillaume Martin

.
.
.
.
IL GREGGE
Miriam Ballerini
 
 


Tobia subì l’ennesimo strepito di urla della madre. Nascosto, seduto in cima alle scale, sull’ultimo gradino di legno, quello che scricchiolava meno degli altri; assisteva a un nuovo litigio dei genitori. 
O, forse, era sempre lo stesso che veniva ripresentato in una nuova versione.
“Non ne posso più della tua gelosia!”, gridò suo padre. 
La sua voce salì per la scala a chiocciola, fino a scontrarsi coi suoi piedi imbacuccati in un paio di pantofole a forma di cane.
“E io sono stanca delle tue bugie!” 
Sua madre, se possibile, urlò più forte di prima. 
Il bambino provò a coprirsi le orecchie con le mani, stringendo forte gli occhi, sperando in un qualche rifugio interiore, dove rintanarsi. 
“Basta! Me ne vado!”
“No, caro! Non sei tu che te ne vai, sono io che ti caccio via!” 
Tobia scalciò l’aria nel tentativo di rialzarsi velocemente. 
Rinculò fino alla sua camera, dove indossò le scarpe da ginnastica e il giubbetto che da poco si era tolto, tornando da scuola. 
Dall’alto delle scale vide l’ombra di suo padre stagliata sul muro: un lungo braccio nero che si allungò per aprire la porta, poi, solo il rumore dei suoi passi sul vialetto e l’accendersi del motore dell’auto. 
Tobia discese qualche gradino; sua madre piangeva in cucina, sentiva i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di coprirne il suono lavando i piatti, sbattendoli fra loro nell’acqua saponata. 
Percorse il corridoio piano; delicatamente aprì la porta e la richiuse adagio. 
Aveva otto anni e il pensiero che gli si era presentato alla mente, era semplice e lineare: sottrarsi con la fuga ai litigi dei suoi genitori. 
Si sentiva svigorito, a furia di passare sempre più giornate ad ascoltare le loro urla, inerpicarsi sui gradini fino a raggiungerlo. 
Aveva paura, di un timore semplice che solo una parola sapeva racchiudere interamente: divorzio. 
A scuola sentiva i discorsi degli altri bambini, figli di divorziati: prima erano le urla, poi il silenzio della divisione. 
E loro, i bambini, rimanevano in quella terra di mezzo – una terra di nessuno – sbatacchiati ora da un genitore, ora dall’altro. 
E questo quando ti andava bene: a volte, venivi affidato a mamma e, papà, non si faceva più vivo. 
Senza accorgersene, Tobia camminò per le strade del paese, con le lacrime che a forza di pungergli gli occhi, avevano finito per trovare la loro via d’uscita. 
Si avviò verso la campagna, passando da un sentiero che a volte percorreva con papà, quando uscivano a raccogliere more; con i guanti per non pungersi le mani e i cestini di vimini che finivano per tingersi di blu. 
Superata una modesta altura, venne accolto dal latrare di alcuni cani e si ritrovò circondato da pecore, agnellini e un paio d’asini! 
Due pastori sedevano su dei massi, intenti a mangiarsi un panino, mentre custodivano il loro gregge. 
Quando i loro animali avessero ripulito a dovere quel campo, si sarebbero spostati in cerca di una nuova pastura. 
Tobia si soffermò ai margini di quell’insieme bianco sporco, belante, ad osservare gli agnellini che trotterellavano intorno alle zampe degli adulti. 
Trascorse così alcune ore, divertendosi ad accarezzare la lana sporca delle pecore e quella più candida dei loro cuccioli. 
I quali si avvicinavano giusto il tempo per farsi accarezzare il muso rosa, e poi scappare via. 
I suoi genitori, nel frattempo, si erano riconciliati, come sempre accadeva dopo le loro liti. 
Per il bene di Tobia, perché non c’erano davvero questi grandi motivi di contrasto. 
Erano la tensione, i malumori raccolti sul lavoro che andavano sfogati in qualche futile scontro; per liberarsi da quel catarro vischioso prodotto dallo stress. 
E poi, ancora si guardavano con negli occhi il velo dell’amore. 
Forse era un po’ rattoppato, logoro, ma pur sempre lì, a fungere da mantello per ripararsi l’un l’altro. 
La donna scese le scale di corsa, allarmata: “Tobia non c’è!”
“Non c’è?”
“Era in camera sua a fare i compiti. Non ci sono nemmeno più le sue scarpe!” 
Si guardarono, lei con le guance arrossate per la corsa, lui pallido, sbiancato dall’ angoscia.
Uscirono di casa, scordandosi di coprirsi.
Il freddo di dicembre li avvinghiò appena li ebbe fra le sue braccia.
Cominciarono a cercarlo dai vicini, nei negozi, nei bar. 
Fra le vie del paese agghindate con file di luci colorate e alberi di Natale, a recitare auguri con le scritte a intermittenza. 
Infine, udirono dei belati giungere dalla campagna, e le voci di alcuni uomini che chiedevano aiuto. 
I due coniugi di precipitarono verso quei suoni, davanti ai loro occhi si presentò una scena tremenda: le pecore erano discese tutte insieme da una collina che era franata sotto al loro peso, fra rovi e alberelli. 
Le bestie che erano scese per prime, stavano distese a terra, schiacciate dalle altre. 
I pastori tentavano di allontanare il resto del gregge, per impedirgli di finire anch’essi soffocati. 
Tobia corse loro incontro: “Mamma! Papà! Dobbiamo aiutarli!”
La madre lo afferrò per le spalle: “Io e te stiamo qui, è pericoloso”. 
Il padre si gettò fra le ressa di animali spaventati, sbattendo le mani e urlando, per far allontanare le altre pecore. 
Nonostante gli sforzi di tutte le persone accorse, e i pastori che provarono a rianimare le pecore praticando loro la respirazione bocca a bocca, per venti animali non ci fu nulla da fare. 
Tobia, stretto fra i genitori, rimase lì a guardare gli agnellini che richiamavano le loro madri defunte, distese in mezzo all’erba con le zampe levate in aria. 
La madre lo abbracciò stretto: “Vieni, torniamo a casa”.
“E adesso?”
Il padre si incamminò con loro, esausto, sporco. “Adesso ci penseranno i pastori. 
Ai piccoli rimasti orfani daranno loro il latte”. 
Entrarono in casa e il padre sedette con Tobia sul primo gradino della scala. “Tesoro, perché sei scappato?”
“Litigavate”.
Il bambino volse verso di lui due occhioni pieni di lacrime: “Litigate sempre! Io non voglio che divorziate”. 
La madre gli si inginocchiò accanto: “Tobia, papà e io ci vogliamo bene. Siamo un po’ nervosi, è vero, ma non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci”. 
“E di lasciare me?” pensò alle zampe di quelle povere bestie, coi piccoli zoccoli appuntiti a indicare un posto lontano del campo. 
“Ma cosa dici?” Suo padre gli accarezzò i capelli. “Non pensarlo nemmeno”.
“Io e papà siamo un po’ come quei pastori che hai conosciuto oggi: per la nostra famiglia faremmo di tutto. 
Hai visto come hanno tentato di salvare il loro gregge? Noi faremmo lo stesso per te. Tu sei il nostro agnellino!” 
Sua madre lo baciò sulla fronte. “Il più bell’agnellino che abbia mai visto!” 
Tobia rise fra le lacrime, tirando su col naso gli ultimi singhiozzi che ancora aveva in gola. “E tu e papà siete due pecore?” 
“Bhè…io un bell’ariete, e mamma una pecora con tanta lana!” 
Risero, abbracciandosi, ritrovandosi in quell’amara esperienza.
********* 
Il giorno dopo degli uomini caricarono su di un camion le carcasse degli animali morti, per portarli all’inceneritore. 
Il gregge, nonostante la tremenda sciagura, proseguì nel suo viaggio. 
Tobia, divenuto adulto, non scordò mai quelle povere bestie morte schiacciate e l’impegno messo dai pastori per salvarle. 
Divenne padre di famiglia e, un giorno, si ritrovò a raccontare questa storia ai suoi figli. 
“… i miei genitori mi consolarono facendo questo esempio, da allora, ho sempre pensato alla famiglia come a un gregge: unita”.



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Grande dunque fu la mia sorpresa nel leggere il suo nome
come autrice di questo bel racconto quando m’è tornato tra le mani…
(ohibò… ma si può dir ancora così dato che oggi nel web…
si parla in effetti di documenti virtuali?).

Si tratta di un racconto che unisce eleganza di prosa,
a realismo, emozione,  dolcezza…
e grande tensione verso una visione positiva della vita.

Vi consiglio di tutto cuore di leggerlo…
 

 


 
 
 Jean-Francois Millet – Pastorella con il suo gregge
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IL GREGGE
Miriam Ballerini
 
 

Tobia subì l’ennesimo strepito di urla della madre. Nascosto, seduto in cima alle scale, sull’ultimo gradino di legno, quello che scricchiolava meno degli altri; assisteva a un nuovo litigio dei genitori. O, forse, era sempre lo stesso che veniva ripresentato in una nuova versione.
“Non ne posso più della tua gelosia!”, gridò suo padre.
La sua voce salì per la scala a chiocciola, fino a scontrarsi coi suoi piedi imbacuccati in un paio di pantofole a forma di cane.
“E io sono stanca delle tue bugie!” Sua madre, se possibile, urlò più forte di prima.
Il bambino provò a coprirsi le orecchie con le mani, stringendo forte gli occhi, sperando in un qualche rifugio interiore, dove rintanarsi.
“Basta! Me ne vado!”
“No, caro! Non sei tu che te ne vai, sono io che ti caccio via!”
Tobia scalciò l’aria nel tentativo di rialzarsi velocemente. Rinculò fino alla sua camera, dove indossò le scarpe da ginnastica e il giubbetto che da poco si era tolto, tornando da scuola.
Dall’alto delle scale vide l’ombra di suo padre stagliata sul muro: un lungo braccio nero che si allungò per aprire la porta, poi, solo il rumore dei suoi passi sul vialetto e l’accendersi del motore dell’auto.
Tobia discese qualche gradino; sua madre piangeva in cucina, sentiva i suoi singhiozzi, nonostante cercasse di coprirne il suono lavando i piatti, sbattendoli fra loro nell’acqua saponata.
Percorse il corridoio piano; delicatamente aprì la porta e la richiuse adagio.
Aveva otto anni e il pensiero che gli si era presentato alla mente, era semplice e lineare: sottrarsi con la fuga ai litigi dei suoi genitori. Si sentiva svigorito, a furia di passare sempre più giornate ad ascoltare le loro urla, inerpicarsi sui gradini fino a raggiungerlo. Aveva paura, di un timore semplice che solo una parola sapeva racchiudere interamente: divorzio.
A scuola sentiva i discorsi degli altri bambini, figli di divorziati: prima erano le urla, poi il silenzio della divisione. E loro, i bambini, rimanevano in quella terra di mezzo – una terra di nessuno – sbatacchiati ora da un genitore, ora dall’altro. E questo quando ti andava bene: a volte, venivi affidato a mamma e, papà, non si faceva più vivo.
Senza accorgersene, Tobia camminò per le strade del paese, con le lacrime che a forza di pungergli gli occhi, avevano finito per trovare la loro via d’uscita.
Si avviò verso la campagna, passando da un sentiero che a volte percorreva con papà, quando uscivano a raccogliere more; con i guanti per non pungersi le mani e i cestini di vimini che finivano per tingersi di blu.
Superata una modesta altura, venne accolto dal latrare di alcuni cani e si ritrovò circondato da pecore, agnellini e un paio d’asini! Due pastori sedevano su dei massi, intenti a mangiarsi un panino, mentre custodivano il loro gregge. Quando i loro animali avessero ripulito a dovere quel campo, si sarebbero spostati in cerca di una nuova pastura.
Tobia si soffermò ai margini di quell’insieme bianco sporco, belante, ad osservare gli agnellini che trotterellavano intorno alle zampe degli adulti.
Trascorse così  alcune ore, divertendosi ad accarezzare la lana sporca delle pecore e quella più candida dei loro cuccioli. I quali si avvicinavano giusto il tempo per farsi accarezzare il muso rosa, e poi scappare via.
I suoi genitori, nel frattempo, si erano riconciliati, come sempre accadeva dopo le loro liti. Per il bene di Tobia, perché non c’erano davvero questi grandi motivi di contrasto. Erano la tensione, i malumori raccolti sul lavoro che andavano sfogati in qualche futile scontro; per liberarsi da quel catarro vischioso prodotto dallo stress. E poi, ancora si guardavano con negli occhi il velo dell’amore. Forse era un po’ rattoppato, logoro, ma pur sempre lì, a fungere da mantello per ripararsi l’un l’altro.
La donna scese le scale di corsa, allarmata: “Tobia non c’è!”
“Non c’è?”
“Era in camera sua a fare i compiti. Non ci sono nemmeno più le sue scarpe!”
Si guardarono, lei con le guance arrossate per la corsa, lui pallido, sbiancato dall’ angoscia.
Uscirono di casa, scordandosi di coprirsi.
Il freddo di dicembre li avvinghiò appena li ebbe fra le sue braccia.
Cominciarono a cercarlo dai vicini, nei negozi, nei bar. Fra le vie del paese agghindate con file di luci colorate e alberi di Natale, a recitare auguri con le scritte a intermittenza.
Infine, udirono dei belati giungere dalla campagna, e le voci di alcuni uomini che chiedevano aiuto. I due coniugi di precipitarono verso quei suoni, davanti ai loro occhi si presentò una scena tremenda: le pecore erano discese tutte insieme da una collina che era franata sotto al loro peso, fra rovi e alberelli. Le bestie che erano scese per prime, stavano distese a terra, schiacciate dalle altre. I pastori tentavano di allontanare il resto del gregge, per impedirgli di finire anch’essi soffocati.
Tobia corse loro incontro: “Mamma! Papà! Dobbiamo aiutarli!”
La madre lo afferrò per le spalle: “Io e te stiamo qui, è pericoloso”.
Il padre si gettò fra le ressa di animali spaventati, sbattendo le mani e urlando, per far allontanare le altre pecore.
Nonostante gli sforzi di tutte le persone accorse, e i pastori che provarono a rianimare le pecore praticando loro la respirazione bocca a bocca, per venti animali non ci fu nulla da fare.
Tobia, stretto fra i genitori, rimase lì a guardare gli agnellini che richiamavano le loro madri defunte, distese in mezzo all’erba con le zampe levate in aria.
La madre lo abbracciò stretto: “Vieni, torniamo a casa”.
“E adesso?”
Il padre si incamminò con loro, esausto, sporco. “Adesso ci penseranno i pastori. Ai piccoli rimasti orfani daranno loro il latte”.
Entrarono in casa e il padre sedette con Tobia sul primo gradino della scala. “Tesoro, perché sei scappato?”
“Litigavate”.
Il bambino volse verso di lui due occhioni pieni di lacrime: “Litigate sempre! Io non voglio che divorziate”.
La madre gli si inginocchiò accanto: “Tobia, papà e io ci vogliamo bene. Siamo un po’ nervosi, è vero, ma non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci”.
“E di lasciare me?” pensò alle zampe di quelle povere bestie, coi piccoli zoccoli appuntiti a indicare un posto lontano del campo.
“Ma cosa dici?” Suo padre gli accarezzò i capelli. “Non pensarlo nemmeno”.
“Io e papà siamo un po’ come quei pastori che hai conosciuto oggi: per la nostra famiglia faremmo di tutto. Hai visto come hanno tentato di salvare il loro gregge? Noi faremmo lo stesso per te. Tu sei il nostro agnellino!” Sua madre lo baciò sulla fronte. “Il più bell’agnellino che abbia mai visto!”
Tobia rise fra le lacrime, tirando su col naso gli ultimi singhiozzi che ancora aveva in gola. “E tu e papà siete due pecore?”
“Bhè…io un bell’ariete, e mamma una pecora con tanta lana!”
Risero, abbracciandosi, ritrovandosi in quell’amara esperienza.
*********
Il giorno dopo degli uomini caricarono su di un camion le carcasse degli animali morti, per portarli all’inceneritore.
Il gregge, nonostante la tremenda sciagura, proseguì nel suo viaggio.
Tobia, divenuto adulto, non scordò mai quelle povere bestie morte schiacciate e l’impegno messo dai pastori per salvarle.
Divenne padre di famiglia e, un giorno, si ritrovò a raccontare questa storia ai suoi figli.
“… i miei genitori mi consolarono facendo questo esempio, da allora, ho sempre pensato alla famiglia come a un gregge: unita”.





Francesco Paolo Michetti – Pastorella con il suo gregge


 
 
 


Ciao da Tony Kospan

 

 


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POESIE…
INSIEME ED IN AMICIZIA? 
 
FANTMONDOPOESIA.jpg picture by orsotony21

Arte e Fiori – Piccola floreale antologia di dipinti dal ‘600 all’inizio del ‘900   3 comments

 
 
 
 
 
David Burliuk




Siamo pronti a fare insieme,
e comodamente seduti,
un piccolo viaggio nella storia dell’arte…
tutto immerso nei fiori?




Astolfo Petrazzi – Allegoria dell’estate
 
 
 
 

I FIORI NELL’ARTE 
Dal Seicento a Van Gogh


  
 
 
 
La Fiasca fiorita (Cagnacci o Caravaggio) 
 
 
 

La Fiasca fiorita è considerata una della più belle natura morte di tutti i tempi.
L’opera rappresenta ancor oggi un enigma, in quanto nessun studioso è riuscito a scioglierne il mistero dell’attribuzione.
Molti i nomi in campo, più vicini alla realtà restano Caravaggio e Cagnacci.
Unico fatto certo è che si tratta di un quadro eseguito da un maestro della pittura.

 
 
 
 
Brueghel – Ghirlanda di fiori
 

 
 
Il criterio da me utilizzato nella scelta di questi dipinti è stato il rilievo che l’elemento floreale assume nel dipinto che deve esser eguale se non superiore alla figura.
 
 
 
 
 

Gregory Frank Harris – Tra le rose
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Questo originale approccio metodologico, la storia della pittura vista attraverso i fiori, partendo dal naturalismo caravaggesco di fine ‘500 fino all'affermazione della modernità con Van Gogh è stato già utilizzato in diverse recenti mostre tenutesi in Italia ed altrove.
 
 
 
 
Eugène Delacroix – Il cesto di fiori
 
 
 


Nel corso dei secoli, i quadri di fiori o i quadri di figura, dove l’elemento floreale assume un rilievo simbolico hanno raggiunto spesso un’intensità ed un’originalità estetica assai elevata.


 
 
 
 
Otto Scholderer – La composizione floreale
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A testimoniarlo i capolavori di Caravaggio, Cagnacci, Gentileschi, Dolci e altri grandi pittori che hanno eccezionalmente dipinto quadri di fiori, ma anche di Rembrandt, ad esempio, quando ritrae la moglie come Flora.

 
 
 
 

Juan de Arellano – Fiori variopinti

 
 
 
 
L’osservazione di tante belle opere floreali potrebbe… forse… aiutarci se non a risolvere, almeno ad avvicinarci al mistero ancora racchiuso nella straordinaria bellezza della Fiasca fiorita.
 
 
 
 
 
 Louis Marie de Schryver – Il carrettino dei fiori
 
 
 
 
Paul Cézanne – Frutta e vaso di fiori
 
 
 
 
 
 
 Sidney Harold Meteyard – Fiori di melo
 
 
 
 
L'arte floreale è presente anche nel soprannome “Mario de’ Fiori”  di questo artista romano molto apprezzato nelle Corti Europee del '600
 
 
 
 
 
Mario Nuzzi detto Mario de’ Fiori – Autoritratto con valletto e fiori 
 
 
 
 
 
Mario Nuzzi e Lauri – La Primavera
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E se nel ‘700 il tema floreale sembra perder importanza, nel secolo successivo se ne registra una forte e decisiva ripresa.
Mentre però molti specialisti riducono la loro pittura di fiori ad una produzione altamente specifica e inevitabilmente commerciale, sono invece i protagonisti dei maggiori movimenti (dal Romanticismo al Realismo, dall’Impressionismo al Simbolismo) a riprendere questo genere dandogli nuovi significati… nuove valenze.
 
 
 
 
 
 
Monet – Woman with a parasol in the garden at Argenteuil – 1875



Monet – Nel prato




Jean-Francois Millet – Il bouquet di margherite

 
 


Artisti come Hayez, Delacroix, Courbet, Manet, Monet, Cezanne, Renoir, De Nittis, Boldini, Zandomeneghi, Klimt, Van Gogh e Previati si sono applicati nel dipingere fiori

 
 
 
 
 
Hayez – Fiori
 
 
 
 
 
Van Gogh – Vaso con girasoli





Van Gogh Ramo di mandorlo in fiore
 
 
 
 
ispirandosi però alla volontà più moderna di scardinare gli schematismi seicenteschi unendo a nuove valenze simboliche la magia della pura visione dell’occhio dell’artista che registra le impressioni della natura fino a creare una realtà superiore, quella dell’arte.
 
 
 
 
 

Van Gogh – Iris


 
 
 
 
Ovviamente le immagini qui proposte… non esauriscono,  neanche lontanamente il mondo dell'arte dei fiori.

Il post però non finisce qua!

 
 
 
 

 

 

 
Infatti in questo video, dedicato anch'esso ai fiori nell'arte, possiamo ammirare tantissimi altri dipinti.
 
E' il bellissimo e famosissimo video “Duetto dei Fiori” con immagini floreali di pittori fiamminghi del XVII sec. e musica classica… scomparso dal web… ma per fortuna ritrovato anche se con diverso titolo…

Buona visione…

Se vi va, dite quale dipinto floreale vi piace di più…
 
 
 
 
DUETTO DEI FIORI
 
   
Daniel Seghers
 
 
 
 
CIAO DA TONY KOSPAN
 

 
 
 
IL GRUPPO IN CUI VIVER L'ARTE…
INSIEME

 


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Renoir – Rose




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