Di Vermeer non abbiamo alcuno scritto né suo né di altri che parli di lui e che ci aiuti a conoscerlo.
Pertanto possiamo saper qualcosa di lui, del suo modo di pensare e di dipingere, solo esaminando i suoi dipinti.
In tal senso questa opera di inconsueta e (per lui) di non piccola dimensione, nonché la prima in cui la scena dipinta è in un interno, è davvero emblematica pur non essendo tra le più note dell’artista.
OSSERVAZIONE DEL DIPINTO
Una cameriera (la cuffia scesa sulle spalle è tipica delle domestiche) dorme seduta alla tavola appoggiando la testa al braccio (si notano anche degli eleganti orecchini).
Deve aver bevuto un po’ troppo, come indicano le guance rosse ed il bicchiere davanti a lei quasi vuoto che con la sua trasparenza quasi si confonde nella scena.
Notiamo poi che la sedia accanto a lei appare spostata così come il tappeto-tovaglia.
La porta è aperta… deve venire qualcuno ed è in ritardo?
O è venuto ed ormai è andato via?
Propendo per questa seconda ipotesi perché spiega la posizione della sedia e della tovaglia.
Le guance rosse poi manifestano l’umana simpatia che il pittore ha per lei.
Alcune recenti ricerche con moderni strumenti di indagine hanno rilevato che in un primo tempo il pittore aveva dipinto un uomo vicino alla porta poi tolto dall’artista.
In alto, a sinistra della donna, appeso al muro si nota parte di un dipinto in cui si intravedono un piede di Cupido ed una maschera che sono sì un chiaro riferimento all’arte ed alla cultura italiana ma che appaiono anche una chiave per capire l’aura di mistero amoroso nascosta nel dipinto.
Infine, come spesso gli accadrà di fare, egli ci fa conoscere la multiforme varietà di oggetti (spesso provenienti da varie parti del mondo) presenti nelle case olandesi dell’epoca che ci parlano di una globalizzazione ante litteram.
Qui su possiamo osservare il tappeto turco ed il piatto cinese.
CONCLUSIONE ED UNA MIA RIFLESSIONE
Come abbiamo visto il dipinto appare pirandellianamente sospeso in un’atmosfera rarefatta che si presta a tante interpretazioni.
La qual cosa ci dice molto del carattere e del pensiero di Vermeer.
Dirò qui la mia personale, personalissima, interpretazione nata dalle emozioni che l’opera mi suscita.
Ebbene sì l’incontro (piede di Cupido) c’è stato ma non è andato come lei sperava (lei si era preparata con degli eleganti orecchini) ma dopo qualche parola lui è andato via (impegni? la maschera può indicare bugie) e lei (c’è un solo bicchiere) ha annegato la delusione col bere fino ad assopirsi.
Mi piacerebbe, se vi va, leggere la vostra.
Il dipinto del 1656-1657 si trova al Metropolitan museum of art di New York
Vieni come sei, non indugiare a farti bella.
Se la treccia s’è sciolta dei capelli,
se la scriminatura non è dritta,
se i nastri del corsetto non sono allacciati,
non badarci.
Vieni come sei, non indugiare a farti bella.
Vieni sull’erba con passi veloci.
Se il rossetto si disfà per la rugiada,
se gli anelli che tintinnano ai tuoi piedi
si allentano, se le perle della tua collana
cadono, non badarci.
Vieni sull’erba con passi veloci.
Non vedi le nubi che coprono il cielo?
Stormi di gru si levano in volo
dall’altra riva del fiume
e improvvise raffiche di vento
passano veloci sulla brughiera.
Le greggi spaurite corrono agli ovili.
Non vedi le nubi che coprono il cielo?
Invano accendi la lampada della tua toilet –
la fiamma vacilla e si spegne nel vento.
Chi può accorgersi che le tue palpebre
non sono state tinte d’ombretto?
I tuoi occhi sono più neri delle nubi.
Invano accendi la lampada della tua toilet.
Vieni come sei, non indugiare a farti bella.
Se la ghirlanda non è stata intrecciata, che importa;
se il braccialetto non è chiuso. lascia fare.
Il cielo è coperto di nuvole – è tardi.
Vieni come sei; non indugiare a farti bella.
Uno di questo è il fotografo di cui ora vi parlerò che,
insieme a diversi altri,
ha scelto un genere davvero inconsueto.
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Infatti ora conosceremo il fotografo tedesco
diventato famoso
soprattutto per l’idea, davvero molto originale,
di ritrarre i visitatori dei musei
intenti a contemplare opere d’arte.
THOMAS STRUTH
IL FOTOGRAFO DEI… VISITATORI DEI MUSEI
Thomas Struth (nato nel 1954)
Rielaborazione libera di un articolo di LAURA LARCAN
da parte di Tony Kospan
I più importanti musei del mondo sono la sua riserva naturale di caccia.
Si diverte a nascondersi tra la folla di visitatori e a osservare le dinamiche schizofreniche di un mondo umano in balia del fascino dei capolavori dell’arte.
Per poi immortalare i comportamenti di questi piccoli grandi fruitori della cultura di massa.
Ed elaborando un ritratto sociologico dello spirito contemporaneo.
E’ Thomas Struth, uno dei più geniali fotografi di questa alba di terzo millennio, diventato celebre, non solo con riconoscimenti espositivi globali, ma anche con quotazioni da capogiro raggiunte dalle sue opere, con la serie delle “Museum Photographs”, iniziata a partire dal 1989, con cui ha segnato la storia di una nuova tecnica e di un nuovo linguaggio nella fotografia.
A lui musei e gallerie di ogni parte del mondo dedicano mostre antologiche.
Eppure, il pregio di questa rassegna sta tutta nel non privilegiare esclusivamente il tema blasonato dei suoi musei, che rimane di indubbio fascino, ma di ricostruire tutta la sua folgorante carriera creativa che non ha mai perso colpi.
Thomas Struth si riconferma, dunque, uno dei massimi esponenti della fotografia contemporanea attraverso la visione ravvicinata di circa una cinquantina di lavori, alcuni di grandi dimensioni, che partono dai suoi esordi, alla fine degli anni Settanta – la sua prima personale fu a New York nel 1978 – dedicate al paesaggio urbano in bianco e nero.
Un diario scrupoloso e attento, che non scade mai nella vibrazione poetica, prediligendo l’eleganza della sobrietà, con cui documenta la storia delle città, il suo valore urbano, l’estetica del suo divenire, e annota l’interazione fenomenica tra i suoi abitanti all’interno delle realtà architettoniche. Il suo esordio non fu certo casuale.
BREVE BIOGRAFIA DI THOMAS STRUTH
Nato a Gelden, vicino a Colonia, nel 1954, si è formato all’Accademia di Belle Arti di Duesseldorf, ereditando un gusto tutto modernista di impronta concettualistica, se non addirittura minimalista per le immagini.
Gli sono bastate la guida di Gerhard Richter per la pittura e quella di Bernd Becher per la fotografia per puntare il suo estro sull’uso essenziale dell’obiettivo fotografico, spingendosi verso scenari urbani in cui evidenziare il senso della collettività e della quotidianità.
Ambienti pregni di un’atmosfera urbana che lasciassero trasparire non solo il confortevole scorrere della vita ma anche la carica eversiva della modernità.
La sua fantasia creativa, quella che lo ha caratterizzato in maniera universale e che lo ha trasformato letteralmente nel magister di una scuola nuova è quella che si è estrinsecata nella serie di celebri immagini in cui ritrae i visitatori intenti a contemplare le opere all’interno dei musei.
Sono tutte opere di grande formato, a colori, dove l’effetto sovradimensionato sembra trasfigurare l’abituale fruizione della fotografia per aprire nuove percezioni psicologiche nel visitatore.
E’ un gioco teatrale spettacolare, da applauso.
Quello che poteva essere un intento documentario di ambienti museali diventa letteralmente una messinscena.
Thomas Struth può immortalare le sale del museo con i suoi capolavori universali, coinvolgendo gli stessi visitatori, che diventano anche loro elementi perfettamente integrati con l’ambiente circostante, in una sorta di teatralità silenziosa, dove il turista appare trasfigurato in una comparsa della scena.
Ma Struth può anche avvicinarsi di più alle persone, colte nel momento in cui contemplano l’opera d’arte.
Ed è questo il suo segno più arguto e innovativo, scegliendo di ritrarre frontalmente la gente che guarda, vista come dal punto di vista dell’opera: quasi uno studio psicologico dei modi di guardare e di recepire l’arte di persone di diverse età, sesso e provenienza sociale.
Struth punta così a ritrarre la condizione esistenziale dell’uomo confrontato con la propria immagine nell’opera d’arte.
Ecco, allora, ritrovare nelle sue immagini folle di individui nelle più svariate attività: possono ammirare estatiche l’opera, possono ascoltare la guida, possono distogliere l’attenzione e osservare altre persone.
Sono veri e propri saggi sull’osservazione, sull’osservare e sull’essere osservati.
Ma Struth affronta con la sua macchina fotografica anche le altre indagini tematiche come quelle legate alle chiese e ai luoghi sacri, dove il fotografo trasfigura la monumentalità architettonica e spaziale, profusa di valori cromatici, nella superficie invasiva di un “pattern” decorativo, come ad esempio realizza con la facciata del Duomo di Milano.
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Duomo di Milano – interno
Un altro tema sono i cosiddetti “Paradisi”, scatti fotografici che ritraggono luoghi dove l’uomo non ha mai o ha raramente messo piede.
Qui scorre l’altro tema caro a Thomas Struth, quello della natura, dei territori incontaminati, delle foreste amazzoniche, di una natura, insomma, che è protagonista assoluta in una dimensione parallela alla realtà urbana, un mondo senza tempo, sospeso in una grandiosità sconosciuta e silenziosa.
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Un tema spiazzante che appare opposto a tutta quella civiltà fatta di arte, di città e architetture finora perlustrate.
D’altronde, l’essenza di questa fotografia la indica lo stesso Struth quando afferma “cerco un dialogo tra passato e presente e la possibilità di cercare uno spazio di quiete nel nostro mondo frenetico“.
ALTRE SUE OPERE IN TEMA
Testo rielaborato da repubblica.it – immagini da vari siti – impaginazione T.K.