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Ancora oggi sono molti i misteri di questa
che è la più bella piramide in assoluto.
Esaminiamoli… uno per uno
La Grande Piramide di Giza – Lo splendore di Khufu
I MISTERI DELLA GRANDE PIRAMIDE
Interno della Piramide
1 – IL MISTERO DEL MODO IN CUI FU COSTRUITA
Come siano riusciti gli antichi Egizi ad edificare una struttura che occupa un’area di 5,3 ettari, che si innalza verso il cielo per circa 145 metri, composta da due milioni e mezzo di massi calcarei e che complessivamente pesa 6 milioni di tonnellate, non è ancora del tutto chiaro, anche perché sull’argomento, stranamente, non sono rimaste moltissime testimonianze.
Di sicuro gli architetti dovevano essere buoni conoscitori delle scienze matematiche, dato che le proporzioni e le misure della piramide sono straordinariamente precise.
I risultati di tutte le altre misurazioni hanno portato, inoltre, alla convinzione che la Grande Piramide, in realtà, sia stata progettata come un gigantesco schema del tempo, in attesa di essere interpretato dalla civiltà futura.

Si ipotizza che la costruzione di questo straordinario monumento sia durata circa trent’anni con l’impiego di circa quattromila uomini, fra muratori e costruttori.
A differenza di altri antichi monumenti egizi, la Grande Piramide contiene vani e corridoi anche nelle parti alte della struttura. Per 3000 lunghi anni l’interno della piramide è rimasto inviolato.
Fu solo nel 820 d.C. che una spedizione archeologica riuscì finalmente ad individuarne l’entrata.
All’interno, anche il corridoio ascendente era stato chiuso e nascosto attraverso l’utilizzo di blocchi di granito.
Dopo aver aperto un varco attorno ad essi, la spedizione raggiunse la Camera del Re solo per scoprire che il sarcofago del faraone era vuoto.

2 – IL MISTERO DELLA CAMERA DEL RE
Attraverso un’entrata praticata appena sopra la base, al centro del lato nord, si accede ad uno stretto passaggio che scende in una camera scavata nella roccia sotto al monumento.
Sempre dallo stesso passaggio parte un altro corridoio che, invece, sale fino a sboccare prima in un piccolo vano, denominato Camera della Regina, e poi nella Grande Galleria, che porta fino alla Camera del Re, la stanza più imponente, che contiene un cofano a sarcofago.
Questa camera di Re: scoperta intorno all’anno 820 d.C. dal Califfo Ma’mun.
Essa è situata a un terzo dell’altezza della Grande Piramide, e cioè a circa 45 mt dalla base.
Ci si aspettava di trovare un tesoro proporzionato alla grandezza del monarca, ed invece la camera del faraone (funeraria secondo l’egittologia ortodossa) era completamente vuota e spoglia dal qualsiasi decorazione e iscrizione.
Solamente un sarcofago in granito vuoto (oggi tale materiale viene intagliato per la sua durezza, con abrasivi quali la polvere di diamante o di carburo di silicio detto carborundo.
Per accedere alla Camera del Re, si devono superare percorsi stretti ed impraticabili, corridoi e gallerie piccolissime.
La domanda che ci si pone è come hanno fatto i saccheggiatori di tombe a trafugare tutto (se mai c’è stato un tesoro, ndA) , ma proprio tutto all’interno di una stanza situata a circa 45 mt di altezza, e il cui unico modo per raggiungerla dalla base è una galleria ascendente (bloccata da pesantissimi tappi in granito) che si collega alla Grande Galleria, lunga circa 46 mt e con una pendenza di 26°?

3 – IL MISTERO DEI MOTIVI DELLA COSTRUZIONE
Ancora oggi nessuno può sapere con esattezza quale fosse la reale destinazione della Grande Piramide, a parte il fatto di essere il prodotto di numerosi e precisi calcoli matematico-astronomici.
Se non era una tomba costruita per ospitare il corpo di Cheope, a cosa serviva?
Chi aveva bloccato il passaggio, in che modo e soprattutto perché, visto che non conteneva nessun tesoro?
Ma poi… come fu possibile realizzarla in un tempo così remoto?
E’ credibile che una civiltà dell’età del rame abbia accumulato 21 milioni di tonnellate di pietre in circa un secolo, di cui 12 milioni solo a Giza, realizzando qualcosa che si discostava completamente da quanto mai realizzato sia prima che dopo?

Tra gli specialisti in archeologia egizia, è opinione comune che fu costruita come tomba per il faraone della IV Dinastia (2575-2467 a.C.) Khufu (conosciuto come Cheope).
Questa opinione si basa principalmente sul ritrovamento di geroglifici su alcune pietre all’interno della piramide che assomigliano al suo sigillo, e alla testimonianza di Erodoto che vide i monumenti nel V° secolo a.C., cioè più di 2000 anni dopo che erano stati costruiti.
Nonostante il fatto che nessun corpo fu mai trovato all’interno delle sue stanze ben sigillate, gli egittologi persistono nella loro teoria, facendo nascere una storia su decine di migliaia di schiavi costretti al lavoro per decine di anni nella costruzione di una montagna di pietre in cui mettere il cadavere di un solo uomo.
Stranamente, i meticolosi scrivani dell’antico Egitto non hanno lasciato nè una parola ne un geroglifico riguardante la piramide.
Inoltre la più antica immagine conosciuta, un affresco rappresentante degli schiavi forzati a trasportare dei blocchi di pietra su delle slitte di legno, fu dipinto mille anni dopo la data in cui gli egittologi ritengono che la piramide sia stata costruita.

UN'IPOTESI SULLE MODALITA' DELLA COSTRUZIONE
Per non parlare del metodo utilizzato, così bene descritto da John Baines, professore di Egittologia presso l’Università di Oxford: “Via via che la piramide cresceva in altezza, la lunghezza della rampa e la sua larghezza alla base venivano aumentate per mantenere una pendenza costante (di circa uno a dieci) e impedire che crollasse. Con tutta probabilità vennero utilizzate più rampe accostate alla piramide da vari lati“.
Però per portare un piano inclinato alla cima della Grande Piramide con una pendenza di 1:10 sarebbe stata necessaria una rampa lunga 1460 metri, con un volume più elevato della stessa piramide.
E’ difficile immaginare come, lungo questa chilometrica salita, gli schiavi trascinavano blocchi pesanti diverse tonnellate.
Altri egittologi hanno ipotizzato allora l’utilizzazione di rampe a spirale realizzate in mattoni e fango attaccate ai fianchi della Piramide.
Indubbiamente per queste ci sarebbe voluto meno materiale nella loro costruzione, ma l’idea di squadre di operai che trascinano massi pesantissimi su per curve a gomito è paradossale.

Testo da vari siti web – coordinamento ed impaginaz. Orso Tony
CIAO DA TONY KOSPAN
Il tuo gruppo di storia e ricordi

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Parlerò ora di questo grande pittore americano del ‘900
nonché della sua arte “del silenzio” o “dell’incomunicabilità”
e mostrerò le immagini di diversi suoi noti e significativi dipinti.
EDWARD HOPPER
OVVERO
LA POESIA SILENZIOSA NELLA PITTURA
a cura di Tony Kospan
(Nyack 22.7.1882 – New York 15.5.1967)
Edward Hopper è stato un pittore statunitense
divenuto famoso soprattutto per la sua capacità
di ritrarre il senso della solitudine
nella società americana contemporanea.
Il suo mondo artistico è lontano dalle tendenze
astratte o surreali in auge nella prima metà del ‘900.
Il suo stile si forma in modo assolutamente indipendente
ma non senza lo studio dei grandi artisti europei dell’800
ed in particolare degli impressionisti.
Per questa sua lontananza dalle grandi mode artistiche dell’epoca
i suoi dipinti non ebbero, per lungo tempo,
la considerazione che meritavano.
Prima fila
Il vero grande successo gli arrise infatti solo verso i 50 anni
e precisamente dopo il 1933
anno in cui il MoMa di New York gli dedicò una prima retrospettiva.
Chop Suey (1929)
ANALISI DELLA SUA PITTURA
Le opere di Edward Hopper definito “Pittore del silenzio“, con le loro grandi valenze simboliche esplorano ed anticipano le difficili realtà comunicative della moderna società.
La sua è una pittura “semplice” e lontana da ogni virtuosismo o raffinatezza ma trasmette con forza dei messaggi, anche spirituali, grazie all’uso intenso del colore.
Ogni suo dipinto “fissa” un particolare momento emblematico di una situazione ma può anche esser visto da molte diverse angolazioni.
Hopper – Autoritratto
Il tema principale delle sue opere è l’atmosfera di solitudine, soprattutto delle grandi città dei suoi tempi, ma che tuttavia, a ben vedere, è la stessa di oggi nonostante l’esplosione del web e delle nuove tecnologie di comunicazione.
IL SUO MONDO PITTORICO
Nei suoi esordi fu molto vicino alla pittura impressionista soprattutto nel suo soggiorno europeo dei primi anni del secolo scorso ed in quelli successivi.
Poi però, pian piano, la “rarefazione” della sua pennellata, in evidente contrasto con la vivacità dei colori, donando un senso di inquietudine, porta a definire la sua… una pittura metafisica.
La scena dei suoi quadri è sempre silenziosa ed i personaggi dipinti appaiono fermi come se ripresi nell’attimo di un pensiero o di un momento di solitaria riflessione.
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New York Movie 1939
I suoi dipinti rappresentano quello che appariva già evidente nell’America del primo 900 e cioè il senso di vuoto, di alienazione, di grave incomunicabilità soprattutto nelle classi medie delle grandi città americane.
Presento ora altri suoi dipinti per meglio evidenziare quel che dicevo e cioè la sua rappresentazione di un mondo sempre più moderno, sempre più avanzato, sempre più veloce ma che, proprio per questo, gli appare (ed è) moltiplicatore di solitudine ed incomunicabilità.
Quel che è certo è che egli coglieva nel segno.
Oggi i suoi dipinti sono amatissimi e vanno per la maggiore ed anzi dirò di più… molti di essi sono anche diventati mitici ed emblematici del “male di vivere” di montaliana memoria.
Automat
Escursione nella filosofia
Compartment C Car 293
Sole al bar
The long leg – 1935
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Sera blu
Stanza d’albergo
Sera d’estate
Guardare il mare
Tony Kospan
IL SALOTTO DEGLI ARTISTI
E DI CHI AMA L’ARTE
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Autoritratto
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Fabrizio Clerici, pittore di archeologie fantastiche,
è considerato il più visionario artista italiano del Novecento
anche se è poco noto alle masse.
I suoi dipinti sono molto amati dalla popstar Madonna
(Milano 15.5.1913 – Roma 7.6.1993)
BREVE BIOGRAFIA
Nato nel 1913 a Milano nel 1920 si trasferisce a Roma dove si laurea presso la Scuola Superiore di Architettura nel 1937.
Roma con i suoi monumenti, la sua architettura e la spettacolarità delle manifestazioni religiose è fondamentale per la formazione della sua visione artistica si guardi giù in tal senso “Sonno Romano” del 1955.
Notevole influenza ebbero poi gli incontri con i più grandi artisti della sua epoca ed i suoi viaggi.

Qui con Moravia
Oltre alla pittura, a partire dagli anni 50, si dedicò con passione anche alla creazione di scene per il teatro collaborando con vari registi tra cui Strehler ed ad una grande vetrata per la Basilica di San Domenico di Siena nel ’57.
La sua attività artistica si svolse fin quasi alla fine della sua vita.
Dopo la sua morte, avvenuta nel 1993, è stato creato un archivio delle sue opere in suo onore e secondo i suoi desideri.
ENIGMA FABRIZIO CLERICI
LAURA LARCAN

Accadde un giorno del 1990 che Jean Paul Gaultier, quello che stava per diventare uno degli stilisti più eccentrici e geniali del fashion system, visitando il Museum of Modern Art di New York s’imbatté nel “Duo per arp“, quadro d’una sontuosa suggestione mitica del 1944 di Fabrizio Clerici.
Gaultier si fermò a contemplarlo a lungo, gli ricordava molta fotografia surrealista parigina degli anni Sessanta.
Ne rimase folgorato.
Chiese subito informazioni, voleva assaporare questo Clerici che lo gustava molto!
Quel 1990, stava per essere l’anno esplosivo del designer francese anche perché la popstar Madonna gli aveva affidato il disegno e i costumi del suo Blond Ambition Tour.

E quel Clerici, quelle tracce di genio romantico e apocalittico, facevano al caso suo. Accadde, allora, che Gaultier regalò alla Material Girl, per una scena del concerto, la più segreta reinterpretazione di arte italiana, nella storia del costume e della moda, di “Solo per Arpa”, citando un’opera del 1946.
Galeotto fu Gaultier.
Perché anche Madonna impazzì per quell’italiano che dipinge pastiche di fantasia e fantascienza infarciti di decadenze antiquarie, tra grandiosità di un’archeologia romana e orientalismi esuberanti che evocano universi paralleli. E quattro anni dopo, quando scrive la sceneggiatura del videoclip “Bedtime story” invoca l’occhio di Horus, proprio come fa Fabrizio Clerici nelle sue opere. Quella di Madonna è stata la celebrazione più sensazionale che il pop abbia mai offerto all’arte “fantastico visionaria italiana”, con un tributo all’iconografia di Fabrizio Clerici. E mentre la sua bocca comincia a scandire “Today is the last day that I’m using words”, la sua faccia somiglia a quelle che Clerici ha disegnato nei “Testimoni oculari” del 1943 e nei “Testimoni oculari” del 1946.

E questo maestro del Novecento (1913-1993), ma allo stesso tempo così avulso dai canoni delle avanguardie storiche, così profondamente colto ma anche inattuale, così permeato di una componente visionaria di derivazione onirica, ma sempre così razionale nell’articolazione delle immagini, così “stendhaliano” nelle sue suggestive scenografie evocatrici di archeologie fantastiche, ma anche così attento alla letteratura fantascientifica che a sua volta diventa nutrimento per i film di fantascienza, dal Pianeta delle scimmie a 2001 Odissea nello Spazio, questo maestro della pittura calligrafica e dell’indeterminatezza temporale, di architetture fossili, di ruderi e rovine di civiltà antiche che rimandano a scoperte temerarie ma anche a viaggi della mente, di miraggi sospesi in paesaggi fantastici, dove l’enigma sembra essere il Dna di un’iconografia germogliata dalla fascinazione per Böcklin e per De Chirico, per Ernst e per Tanguy, per Kircher, ma anche per Signorelli, questo maestro di utopie e catastrofi figurative, di cui Alberto Savinio scrisse in “Ascolto il tuo cuore città” (1944) “Fabrizio del resto è così naturalmente stendhaliano, nell’animo, nel carattere, nel costume, che per una volta mi è consentito credere che la natura ha fatto le cose a dovere”…

La sua è una produzione “visionaria”, bizzarra, affabulatoria e ossessiva. Fabrizio Clerici esordì nel ’49 come pittore relativamente tardivo, quando aveva trentasei anni e un passato già da disegnatore e scenografo, ma con in mente un’opera che fondeva con assoluta audacia le suggestioni del Piranesi, l’autorevolezza negli studi sull’antichità classica del gesuita ed erudito tedesco del XVII secolo Athanasius Kircher, le romantiche e struggenti evocazioni del sublime di Caspar David Friedrich e le simbologie decadenti e misteriose di Arnold Böcklin, trasferendone i codici figurativi e di ricerca nel suo paesaggio contemporaneo, inevitabilmente intriso di inquietudini ed introspezioni.
Un’opera che ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti nazionali e internazionali per la sua opera. Dal MoMA al Guggenheim di New York, dal Centre Pompidou di Parigi al Puskin di Mosca, dai musei Vaticani a prestigiose collezioni private e pubbliche, le sue opere sono parte importante e significativa dell’arte italiana del Novecento.
E questa componente di spettacolarizzazione sul baratro di una teatralità effimera e magniloquente, rimasta forte, quasi incandescente, nelle sue opere sempre pregne di un carisma ambizioso, costante nella sua grandeur surrealista, che non cederà il passo a nessun’altra ricerca di impronta neoavanguardista, conservando sempre la sua aulica e algida poetica, estranea, intenzionalmente sorda a qualsiasi dibattito del secondo dopoguerra.

Recupero del Cavallo di Troia
Forse un suo limite? Forse una sua spasmodica ancora di salvezza nel tourbillon di prove d’autore che hanno imperversato nel secondo Novecento. Sicuramente una cifra stilistica che ne ha segnato, nel bene e nel male, tra successi e critiche, il peso di un’identità nella storia dell’arte contemporanea. Una carriera, quasi quarantacinque anni di arte complessa e colta, densa di raffinati riferimenti culturali, fitta di virtuosismi surreal-metafisici, alimentata di umane inquietudini che hanno tormentato il secolo scorso, documentata da un percorso di oltre cento opere, fra dipinti, disegni e bozzetti di scena provenienti da importanti collezioni pubbliche e private, a ricostruire l’evoluzione visionaria di Fabrizio Clerici, dai famosi labirinti alle composizioni fantastiche di immaginari paesaggi archeologici, dagli interni di matrice onirica, le cosiddette “stanze”, alla serie dedicata alle figure e ai simboli dell’antico Egitto, fino alle opere ispirate a Friedrich, Böcklin e Signorelli.

Sonno Romano – 1955
Roma sarà decisiva per la sua maturità immaginifica. Arriva da Milano all’età di sette anni, si laurea in architettura a ventiquattro, e si innamora dei suoi monumenti antichi, della pittura e dell’architettura rinascimentale e barocca che lo influenzarono fortemente. E’ tutto l’apparato teatrale, folclorico e mistico della città che lo seduce.
Sempre a Roma, negli anni della guerra, si appassiona agli studi scientifici di Athanasius Kircher, agli anamorfici di Erhard Schön e a quelle teorie ottico-prospettiche del Padre Jean-Francois Niceron dell’ordine dei Minimi.
In piena Roma città aperta incontra Leonor Fini, che gli regala il senso tangibile dell’atmosfera di magia infusa nelle sue opere. Ma gli anni Quaranta sono anche gli anni in cui frequentava Alberto Moravia, Elsa Morante, Renato Guttuso, che lo ritrarrà negli anni settanta con de Chirico e Savinio nel dipinto “Caffè Greco“.
L’incontro con Tristan Tzara, la collaborazione con Lucio Fontana, l’amicizia con Salvador Dalì, sono tutti eventi che ne accentuano la creatività eccentrica.
Poi arrivano i viaggi, le sue peregrinazioni nel Medio Oriente, negli anni Cinquanta, l’Egitto e successivamente la Siria, Giordania, Libia, Cirenaica e Turchia, che gli regaleranno i temi che gli saranno sempre cari, i Miraggi e i Templi dell’uovo, cicli di costruzioni utopistiche nei deserti, che si sviluppano a spirale partendo da un nucleo centrale dove ha sede un ipotetico uovo primigenio.
Viaggi che gli infonderanno la dimensione mitologica, quel senso di fatalità quanto mai vivo nelle sue tele.
Alla pittura, che si evolve secondo l’indirizzo sempre più fantastico e magico, si dedica al teatro.
Al ritorno dall’Egitto, Giorgio Strehler lo invita a creare le scene per La Vedova scaltra di Carlo Goldoni. Non è il primo, e non sarà l’ultimo.
Anche Federico Felllini non riuscì a resistere all’eloquente ambiguità dell’immaginario fantastico di Clerici, come raccontano i bozzetti per “Tre passi nel delirio“, del 1968.

Testo di Laura Larcan leggermente adattato al post da T.K.
Diverse immagini dal sito ARCHIVIO FABRIZIO CLERICI
Impaginaz. T.K.
CIAO DA TONY KOSPAN
IL GRUPPO IN CUI VIVER L’ARTE…
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