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Brenda Burke
L’istante occupa uno stretto spazio
fra la speranza e il rimpianto,
ed è lo spazio della vita.
Marcel Jouhandeau

(Girl of the moon)
Brenda Burke
CUORE NEL CUORE
Blaga Dimitrova
Cuore nel cuore.
Respiro nel respiro.
Così vicino a me,
tanto da non vederti.
Oltre la tua spalla
vedevo in lontananza un monte oscuro.
Ero protesa in uno slancio
quasi a oltrepassarti.
Sentivo battere
il cuore impazzito delle stelle.
Accoglievo il vento affannato,
rivestito di foglie.
Mi aprivo alle ombre dei boschi
che venivano incontro
e ai rami che si aprivano
ad abbracciare la notte.
La lontananza inspiravo
in un sorso enorme.
Premevo vento,
nubi e stelle al mio petto.
E nel cerchio stretto di un abbraccio
ho rinchiuso tutto l’infinito del mondo.
Brenda Burke
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Brenda Burke
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Madame d'Ora prima grande fotografa del '900
Anticonformista, liberal, esuberante
e senza falsi pudori nel suo modo di fare fotografia
ha immortalato il bel mondo europeo del primo '900
cogliendo sempre i lati migliori dei personaggi da lei ritratti.
Dora Kallmus (Madame d'Ora) 20.3.1881 – 28.10.1963
Non solo è stata un'antesignana della fotografia al femminile
ma è stata anche la prima ad aprire un atelier con lo pseudonimo
“Madame d'Ora” giocando col suo vero nome, Dora Kallmus,
ed ammiccando alla società altoborghese viennese dei primi del '900.
Appartenente ad una ricca famiglia viennese ebraica
è stata anche la prima donna a frequentare a l'Università.
Klimt
Ha 27 anni, nel 1908, quando Dora fa il suo primo ritratto al grande pittore Klimt
e lo riprende in modo molto naturale mostrandocelo pensieroso e bohemien.
Già appare chiaro che il suo modo di fotografare,
rivoluzionario per l'epoca, è spontaneo, senza pose stereotipate,
ma capace di evidenziare i lati più veri e più belli dei soggetti.
Siamo nella Vienna del 1908, anno della Grande Esposizione,
pervasa da un clima molto vivace e frizzante
per l'arrivo di persone ed artisti da ogni parte d'Europa.
Il suo modo di fotografare libero da conformismi ed aperto anche a pose osé
ma sempre capace di evidenziare la bellezza affascinava tutti all'epoca
ed appare ancor oggi di sorpendente modernità.
Iniziano così a presentarsi davanti al suo obiettivo
artisti di ogni genere
e le sue foto ad avere sempre maggiori successi.
Molte star si offrono senza pudori davanti al suo obiettivo.
Arriva a fotografare perfino l'ultimo Imperatore d'Austria.
La sua fama si estende in tutta Europa ma soprattutto a Parigi,
all'epoca capitale naturale della cultura europea.
Pian piano lei però non svolge più solo il ruolo di fotografa delle star
ma, dagli anni '20, pure di fotografa di moda e di stile
aprendo anche uno studio a Parigi
dove poi nel 1927 si trasferisce definitivamente.
Per tutti gli anni '30, il suo atelier nella “Ville Lumière”
è frequentato da grandi artisti
come Chagall, Picasso, J. Backer, Tamara de Lempicka etc…
Chagall
Picasso
J. Backer
Tamara de Lempicka
Il nazismo però interrompe il suo lavoro di successo e,
per sfuggire alla caccia agli ebrei, si nasconde in un monastero.
Finisce così la sua storia di grande fotografa della dolce vita.
Dopo la guerra si dedica invece ad un fotogiornalismo di denuncia
delle più gravi situazioni ed ingiustizie sociali.
Le sue foto non solo sono foto d'arte
ma hanno anche un grande valore documentale
dato che ci consentono oggi di vedere il vero volto
e l'animo di tanti personaggi del secolo scorso.
Dopo molti anni di silenzio
la sua arte fotografica è stata riabilitata e le sue foto
vengono ogni tanto presentate in mostre e retrospettive
ma sono soprattutto molto presenti nel web.
Tony Kospan
F I N E
Copyright Tony Kospan
Vietata la copia totale senza l'indicazione dell'autore e del Blog
IL GRUPPO DI CHI AMA VIVER L'ARTE
I N S I E M E
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Questo bellissimo dolce-malinconico racconto,
oltre ad esser una lettura che ti penetra nell’animo,
può esser spunto di riflessione sulle nostre rigidità emotive
e sulla necessità di aprirci a chi vogliamo bene
ed a chi ci vuol bene.
L’AMORE GUARISCE
SIA CHI LO OFFRE,
SIA CHI LO RICEVE
Harold H. Bloomfield
La pelle di mio padre era itterica mentre lui era a letto collegato a monitor e fleboclisi nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale.
Normalmente uomo di robusta costituzione, aveva perso oltre quindici chili.
L’infermità di mio padre era stata diagnosticata come cancro al pancreas, una delle forme più maligne della malattia.
I medici facevano quello che potevano, ma ci dissero che gli restavano appena dai tre a sei mesi di vita.
Il cancro al pancreas non si presta alla radioterapia né alla chemioterapia, per cui i medici potevano offrire poche speranze.
Alcuni giorni più tardi, quando mio padre era seduto a letto, mi avvicinai a lui e gli dissi:
“Papà, provo un sentimento profondo per ciò che ti è successo. Mi ha aiutato a guardare il modo in cui mi sono sempre tenuto lontano e a sentire quanto io ti voglia bene davvero.”
Mi chinai su di lui per abbracciarlo, ma le spalle e le braccia gli si irrigidirono.
“Su, papà, davvero voglio abbracciarti.”
Per un momento apparve sconvolto.
Dimostrare affetto non era il nostro modo consueto di trattarci.
Gli chiesi di tirarsi ancora un po' più su per poter passare le braccia attorno a lui.
Questa volta, però, era ancora più teso.
Sentivo accumularsi l’antico risentimento, e cominciai a pensare: “Questo non serve a niente. Se vuoi morire e lasciarmi con la stessa freddezza di sempre, fai come vuoi.”
Per anni avevo sfruttato ogni esempio delle resistenza e della rigidità di mio padre per incolparlo, per provare risentimento verso di lui, e per dire a me stesso: “Vedi non gli interessa.”

Questa volta, però ci pensai meglio e capii che l’abbraccio andava a vantaggio mio oltre che suo.
Volevo esprimere quanto mi importasse di lui, per quanto difficile fosse per lui lasciarmelo fare.
Mio padre era sempre stato molto germanico e incline al dovere; nella sua infanzia i suoi genitori devono avergli insegnato a tenere dentro di sé i suoi sentimenti, per diventare uomo.
Lasciando perdere il mio vecchio desiderio di incolparlo della nostra lontananza, effettivamente guardavo con impazienza alla sfida di offrirgli più amore.
Dissi: “Su papà, mettimi le braccia attorno.”
Mi inchinai vicino a lui sul bordo del letto con le sue braccia attorno a me.
“Adesso stringi. Ecco. Di nuovo, stringi. Benissimo!”
In un certo senso stavo insegnando a mio padre come abbracciare, e mentre mi stringeva accadde qualcosa.
Per un attimo traboccò un sentimento di “ti voglio bene”.
Per anni il nostro saluto era stato una stretta di mano fredda, formale che voleva dire: “Ciao, come stai?”
Adesso sia io che lui aspettavamo che quella vicinanza momentanea si ripetesse.
Eppure, proprio nel momento in cui cominciava ad assaporare il sentimento di amore, qualcosa gli si stringeva nella parte superiore del dorso e il nostro abbraccio diventava goffo e strano.
Ci vollero mesi perché la sua rigidità cedesse e lui fosse in grado di lasciare che le emozioni del suo intimo passassero attraverso le braccia e mi avvolgessero.
Toccò a me essere la fonte di tanti abbracci prima che mio padre desse inizio e un abbraccio di sua volontà.
Non lo stavo incolpando, ma sostenendo; dopo tutto stava modificando le abitudini di una vita intera, e questo richiede tempo.
Sapevo che ci stava riuscendo perché sempre più la nostra relazione si basava sull’affetto.
Verso il duecentesimo abbraccio disse spontaneamente ad alta voce, per la prima volta da quando potessi ricordarmi:
“Ti voglio bene”.

Ciao da Tony Kospan
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