Dopo esser vissuto in diverse citta siciliane seguendo il padre capostazione s'iscrive alla facoltà d'Ingegneria a Roma.
Presto però la lascia per lavorare come tecnico girando per varie regioni ma è a Firenze che, grazie al supporto del cognato Elio Vittorini, pubblica la sua prima raccolta di poesie “Acque e terre”.
Modica 20.8.1901 – Napoli 14.6.1968
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Ciò gli consente d'esser subito riconosciuto come uno dei maggiori rappresentati dell'Ermetismo.
Trasferitosi a Milano inizia con successo l'attività di traduttore dei grandi poeti dell'Antica Grecia.
Seguono diversi libri di poesie in cui forte appare l'omaggio alla Resistenza ed il suo impegno civile.
Nel 1959 riceve il premio Nobel per la letteratura.
Salvatore Quasimodo con la principessa Margaretha di Svezia per il Nobel
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LA SUA POETICA
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I suoi versi, oltre a rievocare i colori mediterranei della sua gioventù, evidenziano le inquietudini, le incertezze e le contraddizioni della moderna società.
Le sue poesie, spesso brevi, presentano versi intensi, forti, decisi ma anche ricchi di metafore e simboli.
In lui appare concreto il desiderio di contribuire, con le sue opere, ad una nuova società in cui prevalgano pace e solidarietà umana.
Il suo approdo all'ermetismo non avvenne a tavolino o per un ragionamento bensì in modo naturale e spontaneo.
E' considerato tra i grandi poeti italiani del '900.
ALCUNE SUE NOTE POESIE
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ESTATE
Cicale, sorelle, nel sole con voi mi nascondo nel folto dei pioppi e aspetto le stelle.
SPECCHIO
Ed ecco sul tronco si rompono gemme: un verde più nuovo dell'erba che il cuore riposa: il tronco pareva già morto, piegato sul declivio E tutto mi sa di miracolo; e sono quell'acqua di nube che oggi rispecchia nei fossi più azzurro il suo pezzo di cielo, quel verde che spacca la scorza che pure stanotte non c'era.
Dipinto di C. C. Curran
VOGLIO PENSARE AL CUORE CHE HAI
Voglio pensare al cuore che hai mentre danzi, e scavi le braccia e il capo sollevi come a donarti intera all’aria. Quel cuore io cerco; con esso raggiungerai il gesto preciso che ti farà alta nell’arte che ami, e per la quale, come me, consumi ogni fuoco. Ma come sei distante nel tempo! Mi pare talvolta, e lo temo fino all’angoscia nella mia solitudine di uomo, che tu possa scomparire come sei apparsa improvvisamente quella sera con un po’ di fuoco nei capelli e sulla fronte. Penso anche che andrai ora dove non posso vederti, ancora più distaccata da me. La memoria mi aiuterà a soffrire ancor più; perché in fondo noi siamo della razza di coloro che hanno per legge questa assidua pena di cercare armonia conquistando il dolore.
ALLE FRONDE DEI SALICI
E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento.
NON HO PERDUTO NULLA
Sono ancora qui, il sole gira alle spalle come un falco e la terra ripete la mia voce nella tua. E ricomincia il tempo visibile nell’occhio che riscopre la luce. Non ho perduto nulla. Perdere è andare di là da un diagramma del cielo lungo movimenti di sogni, un fiume pieno di foglie.
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ED E' SUBITO SERA
Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera
Parlare di Leopardi è per me come parlare di un proprio Padre spirituale…
Penso però che questa sia la sensazione che vivono tutti coloro che sentono di far parte davvero della grande e comune famiglia della Poesia.
GIACOMO LEOPARDI
(Recanati 29.6.1798 – Napoli, 14.6.1837)
Per questo… per la sua immensa grandezza… la sua intramontabile notorietà… e per la geniale profondità dei suoi versi… e delle sue opere in genere, qualunque cosa io possa scrivere sembrerebbe (e sarebbe) vecchia e banale…
La sua infatti è una delle più grandi figure di tutti tempi nell’ambito della letteratura mondiale…
Mi astengo dunque dal parlare della sua poetica e della sua biografia… e mi limiterò a condividere con te, lettore amante della poesia, alcune tra le sue più note e stupende liriche…
Aggiungo solo che da ragazzo mi sentivo tanto profondamente vicino a lui ed al suo animo da giungere a scrivere sulla copertina di un mio diario… questi miei modestissimi versi… (eravamo nell’epoca della contestazione giovanile e delle battaglie per il divorzio etc…)
Qui la sensibil alma
di colui che singolar vita visse
nel borghese mondo
che la bestia umana crear seppe
per ritener valori
che pur già morti
vissero ancora a rovinar le genti
la fraterna dolorosa psiche
dell’amico Leopardi ammirando
all’ignara pagina
tutta si svelò…
Ma torniamo al Sommo Conte Giacomo… che non era, come sembrerebbe, solo dedito a profondissimi pensieri ma aveva passioncelle umanissime come ad es. il piacere di viaggiare, lo star in bella compagnia, l’amore per i dolci… (che gli rovinarono i denti) ed una finissima e come sempre geniale… autoironia.
Ah, signora!
Quello che lei crede una gobba è l’astuccio delle mie ali! Giacomo Leopardi
Immagine dal film a lui dedicato “Il giovane favoloso”
Ma veniamo alle sue mitiche liriche…
Quelle che ho scelto e che possiamo leggere qui di seguito sono tra quelle che considero più belle.
Se vi va, potete aggiungere o indicare le sue poesie che amate di più…
LA SERA DEL DI’ DI FESTA
Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna mia, Già tace ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce la notturna lampa: Tu dormi, che t’accolse agevol sonno Nelle tue chete stanze; e non ti morde Cura nessuna; e già non sai nè pensi Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno Appare in vista, a salutar m’affaccio, E l’antica natura onnipossente, Che mi fece all’affanno. A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Questo dì fu solenne: or da’ trastulli Prendi riposo; e forse ti rimembra In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri, Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo Quanto a viver mi resti, e qui per terra Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi In così verde etate! Ahi, per la via Odo non lunge il solitario canto Dell’artigian, che riede a tarda notte, Dopo i sollazzi, al suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il core, A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito Il dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. Or dov’è il suono Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido De’ nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio Che n’andò per la terra e l’oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s’aspetta Bramosamente il dì festivo, or poscia Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, Premea le piume; ed alla tarda notte Un canto che s’udia per li sentieri Lontanando morire a poco a poco, Già similmente mi stringeva il core.
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A SILVIA
Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare Di gioventù salivi? Sonavan le quiete Stanze, e le vie dintorno, Al tuo perpetuo canto, Allor che all’opre femminili intenta Sedevi, assai contenta Di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi Così menare il giorno. Io gli studi leggiadri Talor lasciando e le sudate carte, Ove il tempo mio primo E di me si spendea la miglior parte, D’in su i veroni del paterno ostello Porgea gli orecchi al suon della tua voce, Ed alla man veloce Che percorrea la faticosa tela. Mirava il ciel sereno, Le vie dorate e gli orti, E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortal non dice Quel ch’io sentiva in seno. Che pensieri soavi, Che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia La vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, Un affetto mi preme Acerbo e sconsolato, E tornami a doler di mia sventura. O natura, o natura, Perchè non rendi poi Quel che prometti allor perchè di tanto Inganni i figli tuoi? Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, Da chiuso morbo combattuta e vinta, Perivi, o tenerella. E non vedevi Il fior degli anni tuoi; Non ti molceva il core La dolce lode or delle negre chiome, Or degli sguardi innamorati e schivi; Nè teco le compagne ai dì festivi Ragionavan d’amore. Anche peria fra poco La speranza mia dolce: agli anni miei Anche negaro i fati La giovanezza. Ahi come, Come passata sei, Cara compagna dell’età mia nova, Mia lacrimata speme! Questo è quel mondo? questi I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi Onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell’umane genti? All’apparir del vero Tu, misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano.
L’INFINITO
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Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio: E il naufragar m’è dolce in questo mare.
ALLA LUNA
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O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle Io venia pien d’angoscia a rimirarti: E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparia, che travagliosa Era mia vita: ed è, nè cangia stile O mia diletta luna. E pur mi giova La ricordanza, e il noverar l’etate Del mio dolore. Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che l’affanno duri!
Passiamo ora a 2 video davvero belli
dedicati ad altre 2 bellissime sue opere.
Il primo… è “LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA” letta da Vittorio Gassman
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e l’altro il “CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA”
“Albero Magico”, “Albero Farmacista” e “Albero della Vita”,
dagli Africani.
La parola Baobab deriverebbe dall'arabo “bu- hibab”,
(il frutto dai molteplici semi).
La sua denominazione botanica è però
Adansonia Digitatain onore dello studioso francese
Michael Adanson che, nel XVIII secolo,
per primo ce ne diede una descrizione dettagliata.
Alberi di Baobab delll'isola del Madagascar
I Baobab appartengono alla famiglia delle Bombacaceae che comprende otto specie:
sette diffuse in Africa e una in Australia
Il suo tronco può arrivare fino ad circonferenza di 40 metri
ed un'altezza di 20 metri, mentre la sua chioma
può addirittura raggiungere i 50 metri di diametro
ed inoltre ha anche radici lunghissime.
IL FRUTTO E LE SUE PROPRIETA'
Il frutto si presenta con forme variabili.
La superficie è legnosa mentre all'interno v'è una polpa, divisa da filamenti di fibra in 8-10 spicchi, in cui ci sono i semi.
Ha un colore biancastro ed sapore leggermente acidulo, dovuto alla presenza di diversi acidi organici insieme a zuccheri, proteine e vitamine in particolare la C, ben 6 volte più di quella contenuta in un'arancia.