Tutte le lettere d’amore sono ridicole. Non sarebbero lettere d’amore se non fossero ridicole. Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore, come le altre, ridicole. Le lettere d’amore, se c’è l’amore, devono essere ridicole. Ma dopotutto solo coloro che non hanno mai scritto lettere d’amore sono ridicoli. Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo senza accorgermene lettere d’amore ridicole. La verità è che oggi sono i miei ricordi di quelle lettere a essere ridicoli. (Tutte le parole sdrucciole, come tutti i sentimenti sdruccioli, sono naturalmente ridicole).
Questa originale poesia ha ispirato,
anche se in senso molto critico,
Roberto Vecchioni
nella creazione di questa bellissima canzone-omaggio
al grande poeta portoghese.
Vecchioni non è nuovo a questi omaggi a grandi artisti
del passato come, ad esempio, la bellissima “Vincent”
dedicata al mitico pittore Van Gogh.
Roberto Vecchioni
Questa canzone è però anche un’affettuosa, ma decisa,
critica alle solitarie e spesso pessimistiche
– seppur poetiche – visioni di Pessoa
ed è anche un (seppur ormai tardivo) invito al poeta
a viver l’amore senza timore… d’esser ridicolo.
Ma ora leggiamo il testo della canzone e dopo
ascoltiamola in un poetico-musical video.
F. Martin-Kavel – La lettera
LE LETTERE D'AMORE (Chevalier De Pas) Roberto Vecchioni
Fernando Pessoa chiese gli occhiali e si addormentò e quelli che scrivevano per lui lo lasciarono solo finalmente solo… così la pioggia obliqua di Lisbona lo abbandonò e finalmente la finì di fingere fogli di fare male ai fogli…
e la finì di mascherarsi dietro tanti nomi, dimenticando Ophelia per cercare un senso che non c’è e alla fine chiederle “scusa se ho lasciato le tue mani, ma io dovevo solo scrivere, scrivere e scrivere di me…” e le lettere d’amore, le lettere d’amore fanno solo ridere: le lettere d’amore non sarebbero d’amore se non facessero ridere; anch’io scrivevo un tempo lettere d’amore, anch’io facevo ridere: le lettere d’amore quando c’è l’amore, per forza fanno ridere.
E costruì un delirante universo senza amore, dove tutte le cose hanno stanchezza di esistere e spalancato dolore.
Ma gli sfuggì che il senso delle stelle non è quello di un uomo, e si rivide nella pena di quel brillare inutile, di quel brillare lontano…
e capì tardi che dentro quel negozio di tabaccheria c’era più vita di quanta ce ne fosse in tutta la sua poesia; e che invece di continuare a tormentarsi con un mondo assurdo basterebbe toccare il corpo di una donna, rispondere a uno sguardo…
e scrivere d’amore, e scrivere d’amore, anche se si fa ridere; anche quando la guardi, anche mentre la perdi quello che conta è scrivere; e non aver paura, non aver mai paura di essere ridicoli: solo chi non ha scritto mai lettere d’amore fa veramente ridere.
Le lettere d’amore, le lettere d’amore, di un amore invisibile; le lettere d’amore che avevo cominciato magari senza accorgermi; le lettere d’amore che avevo immaginato, ma mi facevan ridere magari fossi in tempo per potertele scrivere…
Eccoci infine alla canzone in questo bellissimo video…
L’arte non è solo bellezza… sogno… fantasia ma anche impietosa ed efficace rivelazione di realtà a volte amare di una società.
In tal modo essa ha un effetto di denuncia spesso superiore e più incisivo di altri mezzi oltre a rappresentare un momento storico.
Un dipinto bello, anche se triste, e molto particolare nella composizione è “I morticelli” del pittore e fotografo abruzzese Francesco Paolo Michetti appassionato cantore del mondo rurale e del folklore della sua regione.
Rappresenta la scena molto dolorosa di un funerale di un neonato sul mare.
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Più che un dipinto sembra mostrare la storia dell’intero percorso di coloro che partecipano in varie forme all’evento ed è paragonabile ad una scena cinematografica.
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Questa particolare impressione è evidenziata anche dalla forma del dipinto, rettangolare e lunga, che lo fa apparire come un fregio.
In verità non si vedono manifestazioni forti di dolore tranne quella del vecchio incurvato che regge il catafalco.
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La dolorosa scena contrasta in modo evidente con i colori del mare, della natura, dei vestiti e dei volti dei personaggi.
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Questo contrasto però ci dice che il pittore vuol donarci una visione dell’evento come di un fatto naturale benché amaro.
Ricordiamo che all’epoca, fine ‘800, la mortalità infantile in Italia era ancora molto, molto frequente.
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Un altro aspetto infine risalta agli occhi.
Il dipinto, essendo molto lungo, ci mostra precise scene di gruppi di persone che possono essere viste anche come dipinti a sé stanti.
Il dipinto fu replicato quasi identico dall’autore 4 anni dopo (“Il morticino”).
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L’amico D’annunzio, abruzzese come lui, colpito dal dipinto lo apprezzò a tal punto da dedicargli i versi che seguono:
“Stagna l’azzurra caldura (…)
Vien per la spiaggia lento il funereo
corteo seguendo croce e cadavere:
sol qualche risucchio di fiotto,
qualche singhiozzo di strozza umana
a tratti a tratti rompe il silenzio
greve (…)
Dietro la croce, dietro il cadavere,
con litanie lunghe, allontanasi,
va va va la pia carovana
sotto la tragica luce immensa.”
da Canto Novo, 1882
SE AMI LA STORIA ED I RICORDI QUESTO E’ IL TUO GRUPPO DI FB
Francesco Paolo Michetti – Autoritratto (Tocco da Casauria 4.8.1851 – Francavilla al Mare 5.3.1929)
Il nostro tempo è caratterizzato o da solitudini di massa, ciascuno davanti al suo computer, vittime di bulimia informatica per non perdere neppure un frammento di mondo, o adunate di massa in occasione di concerti, o a maxischermi per le partite di calcio, o in piazza San Pietro ad applaudire parole di fede o di speranza, ma non più l’amicizia, che è quel rapporto duale che evita alla solitudine di impazzire e alla gran massa di affogarci.
Oggi “amicizia” è diventata una parola che cataloga amori che non si vogliono svelare, rapporti coniugali resi esangui dalla quotidianità, conoscenze utili a scambi di favori, relazioni ipocrite che un giorno possono rivelarsi vantaggiose. Nulla di più, nulla di autentico, ma soprattutto nulla che possa dare espressione a quel bisogno di narrazione, di racconto, di immaginazione, di allusione, di cui si nutre la nostra anima quando nei fatti vuol trovare dei significati, nel dolore un argine, nella gioia una comunicazione, nella monotonia della ripetizione un lampo di novità.
Tutto ciò non è possibile nella solitudine dove il dolore dilaga e la gioia resta inespressa, e neppure nella gran massa che concede espressione solo all’applauso o allo slogan, ma unicamente nell’amicizia dove la parola si fa affabulatoria, immaginifica, confidenziale, segreta e soprattutto fuoriesce dalla “concretezza”, oggi da tutti invocata ed eretta a valore, che altro non è se non un limitarsi nel linguaggio, un controllo delle parole, uno stare ai fatti come richiede il “sano realismo”degli uomini di poche parole, a cui non verrebbe mai in mente di chiedere alla luna “che ci fa in cielo” o a se stessi “che ci fanno qui sulla terra”.
In solitudine queste domande restano inespresse o soffocate, in mezzo alla gente che quotidianamente frequentiamo possono generare qualche sospetto, perché sono domande troppo cariche di senso per poterle esplorare in solitudine, e troppo fuori dall’usuale per poter essere accolte in pubblico come domande “serie”. Eppure queste sono le domande di cui si nutre l’anima, domande poco realistiche ma cariche di simbolismo, per dare spazio alle quali gli antichi Greci, accanto al singolare e al plurale, avevano inventato il “duale”, che è lo spazio dell’amicizia, dove ogni parola che rinvia a un’eccedenza di senso non rischia di apparire parola folle, perché l’ascolto dell’amico non è solo ascolto razionale ma aperto a tutti gli sconfinamenti di senso, che è prerogativa del cuore.
Ma dove trovare il tempo? Si giustificano i più. Non a caso l’amicizia è diffusa tra i giovani che hanno a disposizione tanto tempo, e riprende in età senile quando non si ha null’altro a disposizione che il tempo. Ma che dire di una cultura che concepisce l’amicizia una “perdita di tempo”? Non inganniamoci. Non è il tempo che ci manca, è la capacità di stare l’uno con l’altro in quella forma intermedia che non è la fusione dell’amore e neppure l’anonimato dei rapporti impersonali perchè solo funzionali, è la capacità di muoverci in quella zona di confine tra le prescrizioni della ragione e quegli sprazzi di follia che di continuo attraversano la nostra anima e che solo l’amicizia sa accogliere. Perchè proibirci questo spazio? Quale spietata tirannide ci impone di stare ai fatti e nient’altro che ai fatti?
Tra l’anonimato del pubblico e la solitudine del privato vogliamo conservare quello spazio intermedio propiziato dall’amicizia, che ricuce quella dissociazione a cui la nostra cultura ci costringe a non essere mai in pubblico quel che veramente siamo, e a vergognarci un po in privato delle nostre pubbliche performance. Tuteliamo l’amicizia. Forse è l’unico spazio che ci rimane per un residuo di sincerità, una sorta di riunificazione con noi stessi dalla dissociazione che ci è imposta, una forma di autoriconoscimento secondo quel modulo che Platone ci indica là dove dice: “Se uno, con la parte migliore del suo occhio guarda la parte migliore dell’occhio dell’amico, vede se stesso”.
A meno che ciascuno non sia diventato per se stesso il maggior ingombro da evitare, qualcuno con cui non si sa che rapporti avere, qualcuno da evitare, quando non da affogare con le cose da fare, per non trovarci mai a tu per tu con questo sconosciuto che lo sguardo accogliente dell’amico potrebbe incominciare a raccontare, a delinearne i contorni, a propiziarci l’incontro.
E’ infatti la scoperta di noi che l’amicizia favorisce e propizia.
il papiro 1115, dell’Ermitage di Leningrado, in scrittura ieratica,
risalente alla XII dinastia (ca. 2000 a.C.)
I suoi significati sono di vario tipo
ma il racconto riesce soprattutto a donarci l'atmosfera
di quell'antichissima epoca.
IL RACCONTO DEL NAUFRAGO
Disse allora l’ottimo cortigiano: “Gioisci, o principe, vedi, abbiamo raggiunto la patria, afferrato il martello, il paletto è stato fissato.
La cima di prua è stata gettata in terra, si levano inni di lode, si ringrazia Dio, ognuno abbraccia il suo compagno.
Poichè il nostro equipaggio è tornato sano e salvo, non ci sono state perdite fra la nostra truppa.
Abbiamo raggiunto il confine della Nubia, abbiamo passato l’isola Bigga.
Vedi, siam tornati felicemente, la nostra terra, l’abbiamo raggiunta.
Ma ascoltami, o principe, non esagero: lavati, versa acqua sulle tue dita, rispondi a ciò che ti si chiede, parla al re con cuore raccolto, rispondi senza balbettio, perchè la bocca dell’uomo è in grado di salvarlo. Il suo discorso gli guadagna indulgenza.
Ma agisci come vuoi, è stancante consigliarti.
Piuttosto ti racconto qualcosa di simile, una cosa a me stesso accaduta: ero partito per le miniere del re, ero uscito in mare con una nave.
Era lunga centoventi cubiti e larga quaranta, imbarcava centoventi mariani,l’élite d’Egitto.
Osservavano il cielo, osservavano la terra e il loro cuore era impavido più di quello dei leoni.
Allora annunciarono una tempesta, prima ancora che giungesse, e un temporale, prima che scoppiasse.
La tempesta ci colse che eravamo ancora in mare prima che potessimo raggiungere la terraferma.
Ancora veleggiavamo, quando il vento raddoppiò e sospinse un’onda di otto cubiti.
Mi scagliò addosso un pezzo di legno, la nave affondò.
Non si salvò nessuno dell’equipaggio, io solo fui gettato su un’isola da un’onda.
Vi trascorsi tre giorni in solitudine, col mio cuore unico compagno.
Dormii nell’incavo di un albero e (di giorno) cercavo l’ombra.
Mi accinsi poi a cercare qualcosa da poter mettere in bocca.
Trovai lì dei fichi e dell’uva e ogni sorta di porri, sicomori, maturi e acerbi e cetrioli, come fossero stati piantati.
C’erano anche pesci e uccelli, in breve: nulla vi mancava.
Mangiai a sazietà e qualcosa la gettai via, perchè avevo troppo sulle mie braccia.
Feci poi un bastoncino per il fuoco, ne accesi uno e bruciai un olocausto agli dèi.
Udii poi il rimbombo di un tuono e pensai:” E’ un’onda del mare”.
Alberi si schiantavano, la terrra tremò.
Mi scoprii il volto e lo riconobbi: era un serpente (un dio serpente), che si avvicinava.
Era lungo trenta cubiti la sua barba era lunga più di due cubiti.
Il suo corpo era rivestito d’oro le sue ciglia di vero lapislazzuli…
Spalancò la sua bocca su di me mentre io ero sdraiato sulla pancia dinnanzi a lui.
Mi disse:”Chi ti ha portato, chi ti ha portato bricconcello, chi ti ha portato (qui)?
Se esiti a dirmi chi ti ha portato in quest’isola, farò in modo che ti trovi incenerito, diventato un qualcosa che non si può guardare”.
(Io risposi:) “E’ a me che parli, ma non riesco a sentirti. Sono davanti a te, ma non mi riconosco più”.
Allora mi afferrò con la bocca, mi trascinò nella sua tana.
Lì mi posò, illeso, ero sano e salvo, non mi aveva staccato nulla. Spalancò la sua bocca verso di me, mentro io ero prostrato davanti a lui.
Poi mi parlò: “Chi ti ha portato, chi ti ha portato? Bricconcello, chi ti ha portato su quest’isola del mare che sta in mezzo alle acque?”.
Allora gli risposi, le mie mani rispettosamente piegate. Gli dissi:” Andò così: ero uscito per raggiungere le miniere su incarico del re
(ero in mare con una nave).
Era lunga centoventi cubiti e larga quaranta, imbarcava centoventi marinai, l’élite d’Egitto. Osservavano il cielo, osservavano la terra e il loro cuore era impavido più di quello dei leoni. Allora preannunciarono una tempesta, prima ancora che giungesse, e un temporale prima che si formasse.
Ognuno di loro era più coraggioso e forte del proprio camerata. Fra di loro non c’era un balordo. La tempesta arrivò che eravamo ancora in mare prima che potessimo raggiungere la costa.
Quando ancora navigavamo, il vento raddoppiò e formò un’onda di otto cubiti che mi rovesciò addosso un pezzo di legno.
La nave affondò. Nessuno dell’equipaggio si salvò, a parte me, ed eccomi da te.
Fui portato su quest’isola da un’onda del mare”.
Allora mi disse: “Non temere, non temere, bricconcello, il tuo viso non deve impallidire, perchè è da me che tu sei giunto. Vedi, è stato un dio che ti ha fatto sopravvivere e che ti ha portato su quest’isola paradisiaca. Non c’è nulla che vi manchi, è piena di buone cose. Ebbene: vi trascorrerai un mese dopo l’altro fin quando non ne saranno trascorsi quattro. Allora verrà una nave dalla tua patria, con marinai che tu conosci.
Con loro navigherai verso casa, e potrai morire nella tua città.
Com’è felice chi può raccontare quello che ha passato, una volta superato il pericolo!
Adesso ti voglio raccontare qualcosa di simile accaduto su quell’isola.
Ero su di essa con la mia stirpe, fra di loro dei bambini; tutti insieme eravamo settantacinque serpenti, i miei bambini e la mia schiatta.
Nulla ti dirò di una figlioletta, donatami in seguito a una preghiera. Allora una stella cadde (dal cielo) e tutti perirono tra le fiammme!
Ma accadde che io non fossi tra quelli bruciati, perchè in quel momento non ero con loro:
Quando perciò li vidi tutti morti, su un unico mucchio, fu come se fossi morto anche’io.
Se saprai essere forte e vincerai il tuo cuore, allora riabbraccerai i tuoi bambini… bacerai tua moglie e rivedrai la tua casa.
E’ la cosa più bella di tutte, ritornare nella tua patria; raggiungere la tua stirpe”.
Allora mi prosternai e toccai la terra dinnanzi a lui.
Gli dissi: “Parlerò della tua gloria al mio signore e gli racconterò della tua grandezza.
Ti farò portare ladano, oli di Hekenu, profumo, balsamo, incenso per il tempio, con i quali ogni dio si fa benigno.
Racconterò quello che mi è succeso e quello che ho visto del tuo potere.
Sì (il re) loderà dio per te nella sua residenza, davanti ai funzionari di tutto il paese.
Sacriferò dei tori in tuo onore e li brucerò, tirerò il collo alle oche. Ti invierò delle navi, cariche di tutti i tesori d’Egitto, come si fa per un dio che ama gli uomini in un paese straniero, sconosciuto agli uomini”.
Allora egli rise per colpa mia, (più precisamente) per ciò che avevo detto e che per lui era così stolto.
Mi disse:” Non sei affatto ricco di mirra o di altri tipi di incenso.
Io sono il signore di Punt e la mirra mi appartiene.
Quell’olio di Hekenu che promettevi di portarmi è proprio il tesoro di quest’isola.
Inoltre, quando lascerai questo posto non lo rivedrai mai più, perchè diverrà acqua.
Poi venne quella nave, come egli aveva predetto. mi incamminai verso un grande albero e riconobbi quelli che erano a bordo.
Tornai indietro per informarlo, ma vidi che già sapeva.
Allora mi disse:”Ritorna sano e salvo a casa, bricconcello, per rivedere i tuoi bambini.
Parla bene di me nella tua città: vedi, questo è ciò che desidero da te”.
Allora mi prosternai dinnanzi a lui, con le braccia rispettosamente piegate.
Mi diede un carico di mirra, oli di Hekenu, profumo e balsamo; erbe di Tischepse, essenze e ombretto, code di giraffa, grandi pezzi d’incenso e zanne d’elefante, levrieri, cercopitechi, babbuini e ogni sorta di oggetti preziosi.
Caricai tutto sulla nave e mi prosternai per ringraziarlo.
Allora mi disse:”Vedi, fra due mesi raggiungerai la tua patria, abbraccerai i tuoi bambini e potri ringiovanire nella tua bara”.
A quel punto scesi verso la riva, vicino alla nave e parlai all’equipaggio.
Lungo la riva intonai poi un inno di ringraziamento al signore dell’isola e quelli che erano sulla nave fecero la stessa cosa.
Navigammo dunque verso nord, verso la residenza del signore che raggiungemmo dopo due mesi, proprio come lui aveva predetto.
Entrai poi (nel palazzo), mi presentai al cospetto del signore e gli diedi i doni che avevo portato dall’isola.
Allora di fronte a tutti i funzionari egli mi ringraziò, mi promosse suo cortigiano e mi diede duecento schiavi.
Pensa a come stavo dopo aver raggiunto la terra, quando mi voltavo a guardare ciò che avevo passato.
Ascoltami! E’ bene che gli uomini ascoltino.
Lui però (il principe) rispose soltanto: ” Non ti sforzare troppo amico mio.
Chi dà da mangiare a un’oca prima dell’alba, quando il mattino stesso le tireranno il collo?”.
che ci consente davvero di riflettere su noi stessi
e sul dovere di organizzare in modo razionale
la nostra giornata e la nostra vita…
IL SOLE
UN PENSIERO DI AIVANHOV
Il Sole è il centro del sistema solare e tutti i pianeti gravitano attorno a lui in un moto armonioso.
E' questo movimento armonioso dei pianeti attorno al Sole che dobbiamo riprodurre in noi stessi, affinché tutte le particelle del nostro essere entrino nel ritmo della vita universale.
Contemplando ogni mattina il levar del sole con il desiderio di attingervi delle energie, di penetrare in lui, ma anche di ritrovarlo in noi stessi, noi abbandoniamo la periferia del nostro essere, dove regna il disordine, per ritornare verso il centro, nella pace, nella libertà e nella luce.
E' così che diventiamo capaci di ristabilire dentro di noi un sistema identico, con il proprio Sole al centro, ossia il nostro spirito, che viene ad insediarsi e ad assumere il comando. Per trovare delle soluzioni ai problemi che quotidianamente ci si presentano, sia nella nostra vita psichica che nella nostra vita materiale, dobbiamo lavorare per diventare interiormente un sistema organizzato, dobbiamo cioè installare il sole dentro di noi, affinché tutto graviti attorno a quel centro di luce e di calore.
Omraam Mikhaël Aïvanhov
Omraam Mikhaël Aïvanhov (Serbzi, 31 gennaio 1900 – Fréjus, 25 dicembre 1986) è stato un filosofo e pedagogo bulgaro
Il suo insegnamento è stato orale ed è avvenuto attraverso migliaia di conferenze tenute dal 1937 al 1985 stenografate o registrate su audio o video cassette.
Sono stati pubblicati più di 77 volumi tradotti, in parte, in 32 lingue con i suoi pensieri.
Ancor oggi le sue riflessioni sono amatissime da un grandissimo numero di fans.