Archivio per 29 Maggio 2018

Nostalgia di un abbraccio mai avvenuto – Un racconto d’amore filiale davvero bello ed emozionante.. anche se triste   1 comment


 
 
 
 
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Propongo la lettura di questo racconto che,
pur riguardando un rapporto filiale,
è rappresentativo di realtà diverse
rispetto al nostro immaginario collettivo.


Esso, per la sua bellezza ed intima sofferta verità,
ci fa esser vicini alla sua autrice e forse a tante ed a tanti,
più di quanti possiamo pensare,
che possono in esso riconoscersi.
 


 
 
 
 
 
 
 
 



L'ABBRACCIO
OVVERO
NOSTALGIA DI UN ABBRACCIO MAI AVVENUTO

 
 
Racconto triste ma dolcissimo e poetico…
 
 
 





 
 
 
 
  
 
 
L'ABBRACCIO
GERMANA GALMAZZI
 
 
 

Mi chiedo se sia possibile avere nostalgia di qualcosa che non si è avuto, sapendo che comunque non lo si potrà avere mai.
Parlo di un abbraccio, io ho nostalgia di un abbraccio che avrei voluto e che mia madre non mi ha dato.
Non in un giorno o una situazione particolari, non per una caduta dolorosa o un amore finito. Io parlo dell'Abbraccio, quello che ti senti ancora dentro dopo che lei è morta, quello che ti senti ancora fuori quando ti rannicchi, chiudi gli occhi e ti lasci avvolgere dal ricordo.
Ho provato a cercarlo ovunque, mi sono detta “due braccia che ti stringono è un abbraccio”.
Ma non è così semplice.
Nell'abbraccio di un uomo ho trovato tenerezza, protezione, ma basta un niente perché si trasformi in passione.
Anche nell'abbraccio di un figlio ho trovato tenerezza e protezione, ma basta un niente e si trasforma in un “Grazie, ora sto bene”, anche se non è vero che stai bene.
Perché non ricordo alcun abbraccio di mia madre? Eppure deve avermene dati.
Guardo le fotografie dove lei mi tiene in braccio. Perché non lo ricordo?
Ho avuto il coraggio di chiederglielo. Ero grande e continuavo ad avere questo desiderio, questa nostalgia.
Le ho scritto un biglietto: c'era Snoopy che ballava e io ballavo con lui, per avere trovato il coraggio di dire quello che per tanti anni avevo tenuto dentro: amore, bisogno, parole.
Non una risposta a quel biglietto, nè una battuta ironica, nè una frase commossa, o – come dire – un accenno di rammarico per quello che non ha saputo darmi.
Il silenzio. Peggio di uno schiaffo, peggio di un rifiuto, il peggio di tutto quello che una madre ti può dare.
L'ho cercato fino alla fine, questo abbraccio, fino alla fine di lei.
E quando stava morendo io, quasi approfittando della sua malattia, della sua debolezza, la lavavo, la pettinavo, le massaggiavo tutto il corpo, quel corpo che non ero riuscita a sentire vicino in un abbraccio;
quando stava morendo e ormai parlava con i suoi morti, a un tratto mi chiese:
– Mi vuoi bene?
La rabbia salì dal cuore fino alla gola. Avrei voluto urlarle:
– Che cosa mi stai chiedendo? E' tutta la vita che ti voglio bene.
Tutta la mia stronza vita, l'ho vissuta per dimostrarti che ti voglio bene.
E tu, un fottutissimo “ti voglio bene”, me lo vuoi dire? Una sola volta, me lo vuoi dire?
Ma l'abbracciai io, l'abbracciai e le dissi:
– Certo che ti voglio bene.
E dolcemente la poggiai di nuovo sul letto dove poco dopo sarebbe morta lasciandomi sola, non più di come mi aveva lasciato quando era viva, ma senza più la speranza di poter avere da lei un abbraccio nel quale entrare per farmi consolare.

 







 
 
 
Ciao da Tony Kospan
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IL GRANDE SPIRITO PARLA AL NOSTRO CUORE – Ecco come i nativi americani ricercano l’armonia con se stessi e con la natura   Leave a comment

 

 

 

 

 

Una bella, ed a mio parere, vera, riflessione sulla differente visione della vita
tra i Nativi americani e l’Uomo Bianco, con i primi che appaiono ben più vicini di noi
allo spirito della Natura ed al rispetto per il Pianeta che ci ospita.
 
 
 
 
 
 





IL GRANDE SPIRITO PARLA AL NOSTRO CUORE…
 
 
Un indiano Taos Pueblo incontrò un giorno il più famoso discepolo di Freud, Carl Gustav Jung, il quale era alla ricerca della propria ombra, e gli disse:
«I bianchi vogliono sempre qualcosa. Ma che cosa cercano? I bianchi vogliono sempre qualcosa. Sono sempre inquieti, turbati. Non sappiamo cosa vogliono. 
Non li comprendiamo. Pensiamo siano pazzi».
Nelle parole dell’indiano Jung trovò conferma di ciò che aveva già da tempo intuito: il mondo dell’uomo bianco è Koyaanisqatsi, un mondo disarmonico, privo di equilibrio.
Un mondo malato al quale la saggezza degli Indiani d’America può recare giovamento. 
Affinché l’uomo bianco possa vivere dentro le stagioni, nel cuore della vita, in armonia con se stesso e con la natura.








Nella cultura indiana il percorso di risanamento dell’anima ha delle tappe ben precise che devono essere rispettate: innanzitutto le quattro direzioni dei punti cardinali e, poi, il rapporto con la terra come madre dell’universo e con il cielo come dimora degli spiriti. 
Il processo si completa nel cerchio sacro, una forma che diventa il simbolo dell’armonia tra gli uomini e ciò che li circonda.
Questo viaggio senza fine, perché il miglioramento fisico, emotivo, mentale e spirituale non può mai essere completato, è lo scopo dell’esistenza di ogni Indiano, qualunque sia il gruppo tribale d’appartenenza.








Le quattrocento nazioni originarie del continente nordamericano erano caratterizzate da differenze marcatissime a livello geografico, sociale, linguistico e culturale. 
I Lakota-Sioux si muovevano liberamente nel grande `oceano d’erba’, le praterie e pianure sconfinate che si estendevano dalla Valle del Mississippi alle Montagne Rocciose. 
Erano nomadi che, spostando le proprie tende (tipi), seguivano le migrazioni del bisonte in cerca di nuovi pascoli. 
Gli Zuni e gli Hopi, stanziati nell’arida terra del sud-ovest americano, ricavarono le loro case dal deserto. 
I Cherokee praticavano l’agricoltura. 
Avevano un sistema sociale preciso basato su principi democratici e si organizzarono in insediamenti piuttosto ampi. 
Gli Tsimshian vivevano sulle coste nordoccidentali del Canada. I Chippewa e i Wintu appartenevano al gruppo degli Indiani dei boschi.









Ma un filo comune emerge dalle loro parole, dal ricchissimo patrimonio orale di canti, miti, leggende, narrazioni sacre e profane: la consapevolezza che la Terra è madre e deve essere rispettata. 
La meta di questa avventura spirituale è la comprensione che l’uomo è parte integrante di un cerchio che comprende le piante, gli animali, i minerali, la Terra, il Cielo, l’acqua, le stelle, la notte e il giorno, la Luna e il Sole. 
Il corpo umano è tutt’uno con la terra che lo nutre e lo sostiene: «Noi siamo la terra. 
Noi le apparteniamo. 
Noi siamo una parte della terra e la terra fa parte di noi. 
I fiori profumati sono nostri fratelli. Il cervo, il cavallo, la grande aquila sono nostri fratelli. 
Le coste rocciose, il verde dei prati, il calore dei pony e l’uomo appartengono tutti alla stessa famiglia». 
Non c’è separazione tra mondo naturale e mondo umano. 
L’uomo non è il Signore del Creato e il mondo non è a suo beneficio. 
Ogni creatura ha un eguale diritto all’esistenza e merita rispetto semplicemente perché è viva. 
Il ritmo della natura porta la salute, l’equilibrio, l’armonia la bellezza. 
Il ciclo annuale delle stagioni è garanzia di ordine e di benessere: il tepore primaverile verrà sempre a riscattare il gelo invernale.
Non bisogna spezzare il fluire del cielo naturale, altrimenti ne deriveranno malattia, paura, incubi e insicurezza.
La natura batte il tempo, il suo orologio regola la vita del pianeta e dell’uomo.
L’uomo non stabilisce quindi solamente un rapporto equilibrato con la natura ma arriva a conoscere se stesso grazie a questa armonia.




  







Joseph Bruhac ci racconta una storia che riassume questo viaggio interiore:
 «Dopo che Wakan Tanka, il Grande Spirito, ebbe messo in ordine le altre sei direzioni, l’est, il sud, l’ovest, il nord, il cielo e la terra, restava sempre una direzione senza destinazione. 
Ma poiché la settima direzione era la più potente di tutte, in quanto racchiudeva la saggezza e la forza più grandi, Wakan Tanka, il Grande Spirito, desiderò metterla in un luogo dove non sarebbe stato facile trovarla.
Ecco perché la nascose nell’ultimo posto dove gli uomini generalmente pensano di guardare: nel loro cuore».
Nonostante siano stati privati della propria terra, della propria cultura e della propria identità, gli Indiani d’America sono riusciti a trasmettere la loro fede in questo modo di vivere. 
Hanno parlato con il cuore , di padre in figlio, per indicare il sentiero che porta alla rigenerazione e la loro voce è rimasta.
 
Anche con queste parole:








Accanto alla montagna,
spianato
dai nostri passi,
il terreno del campo risuona.
Ti dice: la terra è un tamburo,
pensaci.
Noi, per seguirne il ritmo,
dobbiamo fare attenzione ai nostri passi.
 

 
TESTO DAL WEB – IMPAGINAZIONE T.K.

 

 




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