

Nu pianefforte ‘e notte
sona luntanamente,
e ‘a museca se sente
pe ll’aria suspirà.
è ll’una: dorme ‘o vico
ncopp’ a nonna nonna
‘e nu mutivo antico
‘e tanto tiempo fa.
Dio, quanta stelle ‘n cielo!
Che luna! e c’aria doce!
Quanto na della voce
vurria sentì cantà!
Ma sulitario e lento
more ‘o mutivo antico;
se fa cchiù cupo ‘o vico
dint’a ll’oscurità..
Ll’anema mia surtanto
rummane a sta fenesta.
Aspetta ancora. E resta,
ncantannese, a pensà.

suona in lontananza,
e la musica si sente
per l’aria sospirare.
è l’una: dorme il vicolo
su questa ninna nanna
di un motivo antico
di tanto tempo fa.
Dio, quante stelle in cielo!
Che luna! e che aria dolce!
Quanto una bella voce
vorrei sentire cantare!
Ma solitario e lento
muore il motivo antico;
si fa più cupo il vicolo
dentro all’oscurità.
L’anima mia soltanto
rimane a questa finestra.
Aspetta ancora, e resta,
incantandosi, a pensare.












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tantissimi complimenti da “laclasseinunclick.com”.
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Grazie… “laclasse…”
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Commento
Una notte di tanti anni fa a Napoli. E’ tardi. E’ buio. Un vicolo tra basse case e forse lontano un tremolio di mare. Solo un pianoforte nella notte suona “luntanamente”. Questo avverbio è magico: ha un suono lungo e la lunghezza della parola si tramuta in lontananza materiale. E la musica si sente “pe ll’aria suspirà” Una musica che non galleggia nell’aria notturna, non vola, ma assume una figura quasi umana, la musica è talmente dolce e leggera che sembra “sospirare” essa stessa!
Poi una notazione fisica “E’ ll’una”. Sentiamo il peso di questa ora al centro della notte. E il vicolo dorme, assopito e cullato dentro questa ninna nanna antica, ma quanto antica? “’e tanto tiempo fa” il bambino riaffiora con le sue sensazioni confuse, con le sue paure avvolte e placate nella vecchia e soffice ninna nanna che il pianoforte notturno gli offre.
Ora l’occhio, con un muto entusiasmo si alza e guarda in alto. “Dio quanta stelle ‘n cielo!” Un cielo da presepio napoletano dove splende una affettuosa luna argentata e l’aria non può che essere dolce. Ma manca in tutta questa dolcezza il suono di una voce umana, una “bella” voce che completi l’effimera felicità del momento. “Quanta ‘na bella voce vurria sentì cantà.
Ma ad un certo punto qualcosa si rompe. Qualcosa modifica il quadro. Inopinatamente il pianoforte lascia morire il suo motivo antico e tace. Ora è il silenzio. Il vicolo sembra farsi più cupo, l’oscurità più densa. Ora è proprio notte.
“L’anema mi surtanto”. Il poeta non dice “io soltanto”. Ormai, per la suggestione del momento egli è tutto anima, è solo anima. E l’anima non ha sesso. Non sappiamo se la persona che ci parla sia un uomo o una donna, sia giovane o vecchia,. Sappiamo solo che l’anima sua rimane alla finestra, anzi a “sta fenesta”. Ecco il grande poeta. Non poteva dire più semplicemente rimane “a la fenesta”? No, questo modo sarebbe stato banale, povero, insignificante. Invece dire rimane a “questa finestra”, è tutt’altra cosa. Il “questa” rende visibile e tangibile la situazione, la persona è lì, appoggiata a questa finestra. E’ una finezza fantastica che solo un vero poeta poteva intuire, afferrare e riprodurre.
E che fa l’anima alla finestra, nel buio ormai totale della notte? “Aspetta”. Aspetta che cosa? L’indeterminatezza dell’attesa è straordinaria. L’idea che l’anima rimane ad aspettare ciò che neppure sa, ciò che si fonde col mistero della oscurità più cupa, è una idea di incredibile valore. E sottolinea ancora di più l’atmosfera magica della notte. Tutto è sospeso, tutto è in una attesa che continua da quando la persona è andata alla finestra “Aspetta ancora”. E la conclusione non può essere che un incantesimo senza conclusione, un incantamento di eterna attesa. Tutto ciò che sapeva di umano è tramontato: il pianoforte, il motivo antico, il desiderio di una bella voce… L’incanto in cui è caduta la persona si condensa in qualcosa di inafferrabile, nel pensiero, anzi nel pensare. Nella notte ella rimane “incantannose, a pensà”
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